Lasciamo la Riviera con molta buona musica nelle orecchie, ivi riassunta. E con questo è tutto: con le mani, con le mani, ciao ciao
Matteo Salvini questa volta non avrà nulla di cui lagnarsi: insieme a Mahmood, Sanremo l’ha vinto un ragazzo di Calvagese della Riviera, un posto grazioso che sta sul Lago di Garda, sponda bresciana. Si chiama Blanco, di cognome fa Fabbriconi, il padre è originario di Roma ma la madre è lombarda. Dovrebbe essere sufficientemente autoctono per il senatore che all’occorrenza cita De André e che nel 2019 riuscì a fare campagna politica sulla pelle di Alessandro Mahmoud da Milano, voce unica e fior d’autore, senz’altro più italiano di lui. Di ‘Brividi’, tempesta perfetta tra modernità e quattro quarti classico, si può soltanto provare l’effetto nel titolo.
Non c’erano i cartonati, riproduzioni in scala 1:1 dei cantanti in gara di fianco ai quali, ogni anno, il popolo delle canzoni si fa le foto e solo alla fine disegna i baffi. Mai come quest’anno di cartonati c’era bisogno, visto che le stelle erano uccelli di bosco per il timore (terrore) che il Covid mandasse in vacca il lavoro di un anno o di una vita. Lasciamo Sanremo e le signore impaillettate tornate a occupare camere d’albergo insieme ai rispettivi infraccati mariti, o con le amiche di una vita, col posto in prima fila all’Ariston, ma anche la balconata “populista” (Checco Zalone) val bene un Armani (vestito).
Il 72esimo Festival della canzone italiana l’ha vinto Amadeus, santo subito, e con lui ha vinto Sanremo, entrambi non più imprescindibili da Fiorello, che il miracolo lo ha fatto lo scorso anno ma che stavolta ha avuto comunque il merito di spingere la nave in acqua: “Se fai un gol nei primi minuti sei avvantaggiato per il resto della partita”, dice il presentatore nella conferenza stampa conclusiva. E nella serata d’apertura, il medley di canzoni tristi cantate come fossero allegre, con il presentatore di spalla a declamar tristezza come fosse giubilo, è stato un capolavoro di nonsense. Sempre di martedì, hanno vinto le lacrime di Damiano dei Måneskin, resosi forse conto di tutta la strada fatta undici mesi dopo ‘Zitti e buoni’.
Ha vinto Cesare Cremonini, ospite dai contenuti altissimi, ha vinto Iva Zanicchi cui il berlusconismo, musicalmente parlando, non ha mai giovato, ma che andava giudicata così come si giudicherebbe il no-vax Van Morrison o la non-filosofica Orietta Berti, ovvero per l’interpretazione, impeccabile. Perché la canzone popolare non è solo quella ‘del territorio’. Ha vinto la voce di Veronica Lucchesi, metà della Rappresentante di Lista, e un ‘Ciao ciao’ da ascoltarsi al mattino con i gipfel e il latte macchiato; ha vinto Michele Bravi, tra gli interpreti più intensi, poco aiutato da ‘Inverno dei fiori’; hanno vinto Ditonellapiaga e Rettore perché girando la manopola della radio (concetto vintage) si finisce prima o poi per ascoltare ‘Chimica’. Quanto ai rapper messi di fronte a Tenco, e a questa non necessaria fregola (di chi li produce) di cantare invece di rappare, la lezione di Anastasio su come fare proprio un classico della canzone italiana è sempre valida.
Un appunto alla regia, alle telecamere impallate dal cameraman davanti, agli obiettivi non puliti, alle voci dell’uno sulla faccia dell’altro, alla perdita di gesti televisivamente importanti, ora che una linguaccia dei Måneskin vale quanto una dei Kiss: il Cisa di Locarno si rivolga altrove se mai volesse imparare a raccontare con le immagini la musica che non sia un’orchestra sinfonica alle prese con Brahms, o un chitarrista che suoni Segovia. È un appunto che viene da prima della pandemia.
Tra chi non ha vinto, sebbene unica per talento, rassicurante al cospetto di Aretha Franklin nella notte delle cover, con ‘Ti amo non lo so dire’ c’era Noemi, sospesa nel limbo degli autori ‘un tanto al chilo’ di proprietà delle major, scelta che pare una rinuncia di partenza al volersi prendere qualche rischio (non basta il Mahmood coautore). In questo senso, vince Massimo Ranieri che si è fatto scrivere ‘Lettera di là dal mare’ da un tizio con la barba folta che non possiede un telefono cellulare e fa vita da eremita, ma trova il tempo e l’ispirazione per scrivere ‘Occidentali’s Karma’, ‘Amen’ e altro di suo anche per Mina. Si chiama Fabio Ilacqua, i tromboni della critica hanno scritto che ‘Lettera di là dal mare’ sarebbe una cosa vecchio stile, ma anche ‘Let It Be’ è una canzone vecchia ed è dal 1970 che il mondo tenta di scriverne un’altra e probabilmente non ci riuscirà mai più. A questo proposito…
“La notte non finisce mai, l’America lontana di là dal mare”. Giacca scura con profilo paillettato blu-argento, quando Massimo Ranieri, la sera della finale, finisce di cantare, riceve il grazie di Amadeus per avere accettato l’invito e per l’essere stato lì, poco dopo le 21, a cantare la cosa più bella ascoltata quest’anno, l’anno scorso, quello prima e quello prima ancora. Ranieri è in voce, la performance è quella definitiva. “Qualcuno grida terra, terra, terra”, canta Massimo, e noi siamo tratti in salvo. Il Premio della critica Mia Martini non è il risarcimento per una voce che per due sere è naufragata, ma l’omaggio di chi dovrebbe capirci di musica al De Filippo della canzone, che quando tutto è concluso ed è quasi l’alba, in sala stampa dice: “Sono emozionato, teso, perché nel mio filo di perle che mi porto idealmente appresso ci sono tutti coloro che mi hanno voluto bene, amato e fatto crescere come uomo, da quel genio di Strehler a Luchino (Visconti, ndr), da Vittorio (De Sica, ndr) a Steno, a Lelouche. In questo filo di preziosissime perle oggi ne aggiungo una particolare, inimmaginabile, meravigliosa”.
Riferendosi alla canzone: “Vi sono riconoscente perché avete capito il problema che viviamo ancora oggi. E io, migrante, lo sono stato”. La storia è quella che abbiamo riportato venerdì, il Ranieri ragazzino sulla Cristoforo Colombo nell’oceano con Sergio Bruni, monumento della musica napoletana che l’aveva voluto con sé. “Grazie per questo premio, la canzone ha bisogno di essere difesa”.
“Se Elisa avesse cantato nuda ci saremmo concentrati comunque sulla canzone” (Valerio Scanu), che non è un’offesa alla femminilità ma un affondo dell’ex vincitore di Sanremo (“In tutti i luoghi in tutti i laghi”) sul nude look di Irama e Rkomi, arrivato prima delle canzoni. Elisa, seconda e di bianco vestita – “Come ventun anni fa, sì, voleva essere un gioco”, dice nella notte – ha cantato ‘O forse sei tu’, brano tecnicamente detto ‘sei ottavi’ ma che a tutti gli effetti è o si può ballare come un valzer. Per la qualità della composizione, ‘O forse sei tu’ ha vinto il Premio Giancarlo Bigazzi assegnato dall’Orchestra del Festival. Risuonano qui parole udite prima che Sanremo cominciasse: “Quando si smetterà di parlare di cantautorato femminile e si dirà soltanto cantautorato?” (Ditonellapiaga).
La perla di Gianni Morandi, terzo classificato, è: “C’è una motivazione per questo premio o è solo perché ero amico di Lucio Dalla?”. A Gianni Morandi, nello stesso posto a ritirare il Premio della sala stampa Lucio Dalla, spiegano che il riconoscimento gli arriva in quanto ‘Apri tutte le porte’ è il brano più votato dalle radio e dalle tv. Chiarito questo: “Non posso dimenticare Lucio che dieci anni fa è mancato, e che quell’anno fu a Sanremo quasi costretto da me. Se ne andò soltanto quindici giorni dopo”.
Felice per un terzo posto inaspettato – “Ci sono tre generazioni su questo podio, gli anziani, le vie di mezzo e i giovani”, aveva detto poco prima sul palco – riflette: “Sono nato quando sono nati i Beatles, i nostri primi dischi sono usciti forse a dieci giorni di distanza. Ma la mia fortuna più grande è stata il lungo stop dal 1973 al 1981, quando mi sono messo a studiare il contrabbasso”. Negli anni dell’oblio, le teche Rai annoverano il momento: un Morandi in borghese a ‘Domenica In’ all’interno di un’orchestra per suonare il suo strumento, nell’anonimato tipico di un musicista di fila e non sotto i riflettori dell’eterno ragazzo, il più ufficiale dei soprannomi, sul quale, prima di salutare, Gianni cita Fiorello: “Tra l’eterno ragazzo e l’eterno riposo è un attimo”.
Evasa per l’ennesima volta la pratica “Ma la presenza di Jovanotti ha condizionato il voto?” (chiunque si presenti con Jovanotti su un palco condiziona il voto), gli chiedono se lui si sia Jovanottizzato: “Semmai è Lorenzo che si è Ammorandato”, risponde.
Come gli amici che s’installano in casa tua e ti svuotano il frigo e ti penti di averli invitati, Gianluca Grignani, un tempo bello come il sole, è venuto a prendersi lo spazio di Irama per provare la botta di vita del Festival come ai bei tempi di ‘La mia storia tra le dita’, mollando il collega da solo sul palco per farsi un bagno di folla in platea alla faccia sua. Tra chi loda il momento ‘felliniano’ e chi denuncia l’accanimento mediatico su di una persona che ha dei problemi, spostiamo l’attenzione sulle canottiere di Giovanni Truppi, unica bruttura di una bella canzone (‘Tuo padre, mia madre, Lucia’).
E poi c’è Tananai: premio all’autoironia quando sui social ride di gusto di sé per non essere proprio il massimo dell’intonazione – “Oh raga, pensavo di avere fatto una figata, torno a casa e mi rivedo: tiravo le stecche” – ma anche premio alla scortesia, la stessa di occupare un posto a sedere sul bus quando c’è una donna incinta in piedi. Perché a volte è meglio ‘Tali e quali’: sono le copie degli originali, è vero, ma almeno cantano da dio.
Nota finale di biasimo a tutti quelli che – anche se in nome della critica musicale e dell’intrattenimento – fanno le pagelle, criticano la scelta delle canzoni, delle canottiere, i nude look, i vestiti fatti coi vetri rotti (Noemi di sabato). Tutti coloro i quali, più in generale, si sono fatti per una settimana intera gli affari degli altri. Compresi noi, certamente, che a furia di parlare dei cantanti ci sono venute in mente le parole di Elio di Elio e le Storie Tese, uno dopo il quale Sanremo non è più stato lo stesso: “Ma saranno anche affari loro...”. E con questo è tutto: con le mani, con le mani, ciao ciao.