Una notte al Teatro Antico davanti all’ennesimo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead, per ennesimo salto in avanti
Il teatro Greco di Taormina è un palco che infallibilmente emoziona gli artisti spingendoli a performance diverse, lo si legge nei loro occhi. È un contesto unico anche per lo spettatore che si ritrova ad avere nello stesso quadro, la band, le rovine del teatro e un palco senza fondale così da includere l’Etna e il golfo sottostante. Le luci si spengono e una voce recita una poesia di William Blake: "C’è un Sorriso d’Amore e un Sorriso d’inganno. E c’è un sorriso di sorrisi nei quale questi due sorrisi si incontrano". The Smile sono l’ennesimo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead, in tour per presentare il loro primo album, insieme al batterista Jazz, Tom Skinner. Un power trio con un approccio molto più suonato rispetto ai progetti solisti elettronici di Thom Yorke o alle colonne sonore orchestrate che Greenwood ha composto per Paul Thomas Anderson, regista magnifico presente anche lui al teatro.
Storia nota ma che val la pena riassumere quella dei Radiohead. Nella prima metà degli anni 90 una serie di singoli, fra tutti, ‘Creep’, un mix di chitarre distorte e testo da manuale dell’angoscia adolescenziale, spalancarono le porte degli stadi americani alla band di Oxford. I Radiohead ebbero però la lucidità di intuire che quella sarebbe stata una strada di sicuro successo ma anche una trappola dalla quale non avrebbero mai fatto ritorno. Fama e soldi in cambio di ripetizioni vita natural durante di ‘Creep’ e tutti i singoli radiofonici a seguire. Insomma, il solito bivio: l’adulazione in cambio dell’anima. Yorke e compagni spiazzarono tutti con ‘OK Computer’, disco che nessuno si aspettava. Fu il loro primo salto quantico.
Facile ora consideralo un classico. Tutt’altra cosa ritrovarselo nello stereo nel 1997. Ma il trucco funzionò. Fu un successo di critica e pubblico. Yorke alzò lo sguardo fin lì timido e remissivo iniziando a giocare a carte scoperte: "Vi piace? Ah si? Vediamo se vi piace anche questo all’ora", e sfornarono ‘Kid A’, disco che abbandonava le chitarre e i testi narrativi in favore di elettronica ed ermetismo. Il secondo salto quantico funzionò ancora. Coscienti o meno, i Radiohead ottengono definitivamente la propria indipendenza artistica. Da lì in poi saranno liberi di sperimentare, esplorare, vendere dischi on-line a offerta libera e qualsiasi altra cosa gli venga in mente. Anzi, diventa il loro tratto caratteristico, ciò che ci si aspetta a ogni loro uscita.
Facendo scorrere velocemente il nastro, Greenwood diventa il più originale e rilevante compositore per il cinema, Yorke sforna dischi solisti sublimi esplorando territori lontanissimi dalla chitarra elettrica. Arriviamo a oggi quando i due si riuniscono per un progetto solo apparentemente più classico, con un batterista, Greenwood, che riabbraccia la chitarre facendo ricadere il ciuffo davanti alla faccia per nascondersi mentre armeggia con effetti, sintetizzatori e arpa, e Yorke nell’inedita veste di bassista. E che bassista. La sorpresa sta nel fatto che il ritorno agli strumenti tradizionali non avvenga con i Radiohead ma con una nuova formazione. Ma ormai abbiamo capito che è meglio aspettarsi l’imprevedibile e non un percorso lineare. In un epoca sempre più sposata – genuflessa sarebbe il termine più esatto – alle semplificazioni, dove anche i sentimenti a tutti noi comuni vengono banalizzati in nome di una comprensione o ipotetica incapacità di comprensione di un pubblico che si ritiene più distratto, inetto, di quel che veramente è, romanzi, film e canzoni ci vengono proposte ridotte ai minimi termini.
Per fortuna c’è ancora chi ci considera esseri pensanti e sceglie di parlarci con vocaboli più adeguati a una conversazione matura. Anche perché se la semplificazione ha comunque diritto e ragione di esistere, è dopo tutto intesa per una fruizione diversa, è impensabile non lasciare spazio a musica capace di attraversare mode e rimanere nel tempo, articolando sentimenti in modo più poetico e sincero. Senza paura.
È un momento e tutto è destinato a cambiare, la consapevolezza di cui canta Yorke in ‘Free in the knowledge’ durante la quale il pubblico sembra capire bene il senso e si ammutolisce. Nella prima parte c’è solo la sua voce e la chitarra e nelle brevi pause nella quali Yorke prende aria, il pubblico trattiene il proprio respiro collettivamente. La band lascia momentaneamente il palco con il pezzo più punk rock del disco, ‘You will never work in televison again’, dove si accenna anche al Bunga Bunga di Berlusconi. D’altronde ormai Yorke è di casa avendo sposato una siciliana. Non contenti di presentare un disco nuovo, il trio continua a snocciolare brani inediti ormai quasi a ogni data e Taormina non è da meno.
Quando rientrano, Yorke, in un ottimo italiano ci dice "Noi siamo i The Smile e questo è un brano nuovo. Beh sono tutti nuovi ma questo lo abbiamo scritto cinque ore fa. Non ha un titolo. Chiamiamolo ‘IT’". Eccolo l’ennesimo salto quantico. Nell’epoca delle registrazioni asettiche prive di imperfezioni e incertezze loro si buttano senza rete in brani dai tempi e incastri difficili, con l’onestà di chi sa che certe emozioni meritano di essere raccontate nella loro complessità. Da non confondere con virtuosismo o pretenziosità. La pretenziosità non è nell’opera ma nell’atteggiamento dell’artista. Prova sostenuta immediatamente durante ‘Skirting on the surface’, nel momento di climax del brano e forse dell’intero concerto, con tutto il pubblico che si alza dalle sedie accompagnando il crescendo della musica con urla e applausi, Yorke stecca clamorosamente mandando la band a sbattere contro un muro. Lui si ferma imbarazzato e ride di se stesso. Gli ci vuole un po’ per riprendersi dallo schianto. Gli altri due aspettano che Yorke torni nello spazio mentale nel quale naviga quando si esibisce ballando, contorcendosi. Se non dovesse suonare il basso in quel momento si metterebbe le mani nei capelli dall’imbarazzo.
Se si sceglie una vita artistica fatta di continui salti in avanti ci sta che ogni tanto si fallisca l’atterraggio, soprattutto se questa filosofia la si porta anche sul palco, proponendo set sempre diversi, pieni di sorprese e passaggi improvvisati. Vediamo spesso vecchie glorie calcare i palchi con i loro cavalli di battaglia, scalette di brani riproposti da anni, tour dopo tour, a un pubblico che non chiede altro che poter cantare a squarciagola il loro brano preferito ancora una volta. C’è sicurezza nella ripetizione e nella nostalgia se si è disposti a ignorare l’avanzare del tempo e i corpi imbolsiti che si trascinano sul palco costringendo a chiudere gli occhi fingendo che tutto sia come venti o trenta anni prima. Con Yorke and Co., si chiudono per perdersi in quel preciso momento "Free in the knowledge that everything is change", perché loro come noi, non sono più quelli di ‘Creep’, non lo siamo da trent’anni e nel frattempo siamo stati cento altre cose, noi e loro.
Pubblico e artista si sono evoluti insieme alla loro musica che è rimasta così, rilevante nel contesto musicale attuale. È il premio in palio quando si sceglie la strada più difficile, il libro più impegnativo, il film meno scontato, e la band più imprevedibile, invece che nascondersi nelle convenzioni, i dogmi e le formulette rassicuranti. La vera e unica ambizione dell’arte, al netto dell’ego dell’artista, dovrebbe essere quella di trascinare ed elevare il pubblico.
Si è quel che si sceglie di essere