Le nuove regole del gioco di ruolo sembrano cedere al ‘woke’, ma a fronte del calo di popolarità l'intento potrebbe non essere del tutto disinteressato
È solo un gioco, o forse no. Fatto sta che non sono andate giù a molti fans le nuove regole, all’insegna dell’inclusione, di Dungeons&Dragons (per tutti D&D), il popolare gioco di ruolo da tavolo ad ambientazione fantasy, edito dalla divisione Wizard of the Coast della casa editrice Hasbro e che nell’anno appena trascorso ha celebrato i suoi 50 anni.
Una polemica nella quale (tanto per cambiare) non ha mancato di buttarsi a capofitto Elon Musk che sul suo social X ha tuonato “Che diavolo di problemi hanno Hasbro e Wizard of the Coast? Che brucino all’inferno”.
Lungi dal voler unirsi al patron di Tesla nelle sue battaglie contro l’ideologia woke, le regole inserite nella nuova versione dei manuali della quinta e più recente edizione possono in effetti lasciare perplessi i giocatori di lunga data. A cominciare dalla sparizione delle “razze” dei personaggi (elfi, nani, orchi ecc…) trasformate in “specie” e declassate sostanzialmente a mero elemento biografico incluso nelle origini del personaggio.
Ora, chi gioca di ruolo (qualunque sia il gioco) ha sempre avuto familiarità con il termine “razza” per indicare le varie creature umanoidi interpretabili tramite i propri personaggi, senza che ciò significasse in alcun modo un’adesione a teorie razziste riferite al genere umano. Né, tanto meno, nessuno ha mai pensato che parlare di nani robusti, elfi aggraziati e orchi malvagi e brutali equivalesse a veicolare uno stereotipo. Semplicemente, il gioco in quanto tale ha delle regole, che comprendono un’ambientazione astratta rispetto alla realtà. In essa, come nell’immaginario fantasy in generale, esistono creature diverse dagli esseri umani, con caratteristiche peculiari che vengono poi tradotte nel gioco numericamente tramite punteggi bonus o malus. Interpretare un personaggio di una determinata razza vuol dire dunque anche accettarne la descrizione fisica, le abilità e i difetti: semplicemente, un orco non è un uomo imbarbarito ma una creatura del tutto diversa, come un cane non è un gatto. Lanciare sospetti di razzismo e parlare di inclusività a proposito di orchi, elfi e nani che esistono solo nella fantasia dei giocatori, oltre che essere fuori luogo rischia di ridicolizzare il discorso stesso sull’inclusione, trasformandolo in una parodia di sé stesso.
Il gioco, poi, è fondato su delle regole, che i giocatori si impegnano a rispettare in base a un contratto sociale non scritto che dà a esse certezza: cambiarle dall’alto invocando il presunto rispetto di diverse sensibilità (non risulta che ci siano state denunce di body shaming da parte degli elfi) rischia di compromettere proprio tale certezza, facendo passare l’idea che se un gioco non piace si possa pretendere di stravolgerlo, anziché, semplicemente, astenersi dal partecipare. Tanto più che, per inciso, ai Dungeon master (Dm), coloro, cioè, che gestiscono l’andamento del gioco e la storia nella quale i giocatori interpretano i personaggi, è già data esplicitamente la facoltà di adottare delle proprie regole e varianti in accordo con i giocatori.
Ma c’è un tema più scivoloso: nel manuale rivolto ai master viene suggerito di far precedere l’inizio del gioco da una consultazione con i giocatori circa le “aspettative di gioco”, che includono anche e soprattutto la trattazione di temi sensibili (sesso, violenza ecc..). Si chiede di stilare una lista di “hard and soft limits”, ovvero di argomenti da evitare assolutamente o trattare con cautela, e di individuare un segnale, ad esempio una mano alzata o un gesto particolare, che i giocatori possano usare nel caso si sentano a disagio durante una scena di gioco per chiedere di adeguarla, senza dover spiegare necessariamente il perché. Ora, se da una parte può essere corretto un ‘trigger warning’ per avvisare i giocatori che la narrazione potrebbe includere argomenti delicati e scene violente, chi gioca da tempo sa che una delle regole non scritte fondamentali del gioco, forse la principale, è che il Dungeon master è l’unico ad avere voce in capitolo circa lo svolgimento della storia, e che sono i giocatori a doversi adeguare, e non il contrario: vien da sé che se ognuno potesse a suo piacimento modificare la trama dell’avventura, verrebbe meno il ruolo stesso del master. Come se uno spettatore che non ama le scene violente chiedesse a Quentin Tarantino di eliminarle dalla sceneggiatura o ai gestori del cinema di fermare la proiezione, quando, semplicemente, basterebbe evitare di vedere un film che è presentato esplicitamente come violento.
“Il gioco è diventato lentamente più inclusivo — scrivono gli autori nella prefazione al nuovo manuale — e, man mano che la base di giocatori è diventata più diversificata, il pool di creatori che realizzano il gioco si è ampliato per includere persone con una gamma più ampia di identità e background. Man mano che questi nuovi creatori rendono il gioco più accogliente, esso ha attirato nuovi fan che, a loro volta, continuano a renderlo più inclusivo”. Si potrebbe essere quasi tentati, come hanno fatto in tanti, di accusare gli editori di aver ceduto all’ideologia ‘woke’. Ma, a pensare veramente male (ciò per cui si fa peccato, ma spesso si indovina), si ha un po’ l’idea che, dopo il clamoroso flop della quarta edizione uscita nel 2008, tutta questa svolta verso l’inclusività sia dunque non già, o non solo, un nobile intento, ma una sorta di “ethics washing” volto ad attrarre nuovi giocatori. Un modo per sdoganare il gioco di ruolo anche fra i meno esperti, sfruttando anche il gancio offerto dalla popolare serie tv ‘Stranger Things’ i cui protagonisti si ritrovano spesso attorno al tavolo da gioco. Con buona pace di chi, a quel tavolo, siede da anni accettandone consapevolmente tutte le regole.