Prima assoluta ticinese per il trio di Ian Hooper, Craig Saunders e Claudio Donzelli, sabato 2 luglio in un contesto che ‘pare il Colorado’
Ci sono un italiano, un americano e un inglese ma non è una barzelletta. Sono i Mighty Oaks, ovvero – in ordine di nazionalità – Ian Hooper, Craig Saunders e Claudio Donzelli, tre singer-songwriter che dodici anni fa hanno scelto Berlino per dare vita a un trio indie folk/rock dai grandi riscontri di pubblico e chart, a partire da ‘Howl’, album d’esordio del 2014, fino all’ultimo ‘Mexico’ (2021).
Qualcuno deve aver descritto le cave di Arzo a Donzelli, nostro interlocutore; o forse Claudio avrà digitato ‘Càvea Festival Arzo’, dove i Mighty Oaks arriveranno (per intercessione di Horang Music) sabato 2 luglio per una prima assoluta ticinese, dopo avere attraversato i più grandi happening musicali (Montreux inclusa, per restare a queste latitudini). Qualunque sia stata la fonte, l’opinione del Mighty Oak sulle cave è che «la nostra musica ci sta a pennello in quello scenario». Donzelli fa il paragone con Red Rocks, anfiteatro pressoché naturale nel Colorado dal quale è transitata la storia del rock e della canzone d’autore americana. Evasi tutti i rimandi, un tuffo indietro alla genesi della formazione.
Claudio Donzelli, da dove arriva tutto questo cosmopolitismo, e Berlino in particolare?
Sono finito a Berlino perché l’ho visitata e ho deciso che mi sarei voluto svegliare qui tutte le mattine, non soltanto il weekend. Venivo da dieci anni a Bologna, sede del mio dottorato in ingegneria, e non avevo più nulla da chiedere alla città. Era il 2008, la grande crisi, e io volevo cambiare aria, con l’obiettivo di fare musica, che facevo già prima. A Berlino ho fatto piccoli concerti come songwriter e una sera ad Amburgo sono finito in un minuscolo festival nel quale ho incontrato Ian e Craig.
Cosa vi ha uniti, a parte Berlino?
Tanti ascolti in comune. Fleet Foxes, Mumford & Sons, il Damien Rice chitarra e voce. Sembrava che in quegli anni la musica minimalista, fatta artigianalmente, avesse una chance. Ad Amburgo eravamo tutti chitarra e voce, abbiamo ascoltato l’uno la voce dell’altro, ci siamo piaciuti e la tradizione cantautorale ci ha uniti. Anche se non avevamo tutti gli stessi gusti: il folk non mi era per niente familiare, essendo cresciuto con band americane e britanniche, più elettriche, ma mi ci sono aperto volentieri, scoprendo quel mondo grazie a Ian che veniva da Seattle e aveva grandi ascolti di bluegrass e ‘Americana’.
In ‘Mexico’ si passa dai canyon alle città, dal selvaggio all’urbano, dall’America di ‘Land of Broken Dreams’ a ‘Ghost’, che suona europea come nessun’altra. Eppure non c’è conflitto…
Prestiamo grande attenzione al suono, che deve rispettare l’idea originale, il tema che la canzone vuole trasmettere. È un’operazione che ci sembra sempre simile allo scrivere una colonna sonora, partendo dalla canzone nella sua forma più minimale che poi vestiamo con suoni che supportano il messaggio. È una sorta di esplorazione che può includere il ‘back to the roots’ (tornare alle origini, ndr), con uso di analogico, apparecchi valvolari, ma anche le nuove tecnologie.
Nessun conflitto, ma il contrasto sì…
È un risultato spontaneo, sono le due facce della nostra medaglia. Da una parte ci sono brani che si prestano a diventare inni istantanei, pomposi, e poi ci sono anti-inni come la title-track, l’America dei sogni infranti, che spesso hanno conseguenze insostenibili. Celebrare l’America in questo modo è anche una wake up call, un modo per invitare a ragionare. Le sparatorie di massa degli ultimi tempi sono il sintomo di una malattia. Allo stesso modo ‘Ghost’ è una canzone d’amore con i suoni distorti, è un brano che stravolgiamo per far sì che illumini quella parte sofferta dei rapporti.
Perché proprio il Messico?
‘Mexico’ è il simbolo di questa location metafisica, di questo luogo verso il quale andare per lasciarsi alle spalle i problemi. Per gli Stati Uniti, il Messico è quello che per la Germania è Maiorca, è quello che per gli europei è Dubai. La canzone, nata durante il lockdown, è la testimonianza che la pandemia ha annullato la divisione tra luoghi con problemi e senza, mettendo tutti in un unico universo. Nel video ci sono due cowboy, simboli dell’America conservatrice che crea disastri e poi se ne va a divertirsi sulle spiagge del Messico. I messicani vivono un conflitto incredibile: loro non riescono a entrare negli Stati Uniti mentre gli statunitensi possono andare a farsi le ferie in Messico. Con ironia, il video evidenzia questo assurdo.
Molte vostre storie sono ambientate sulla costa del Pacifico, ma avete suonato anche ad Austin, Texas: gli Stati Uniti rimangono un obiettivo?
Certamente, prima o poi ci piacerebbe tornare. Ancora non sappiamo come e con quali mezzi, da quelle parti esiste tutto un altro modo di fare tour e noi non abbiamo gli stessi numeri che abbiamo in Europa. E poi ci sono i visti imposti dall’amministrazione Trump, i costi si sono duplicati e le distanze sono enormi. Però il pubblico è affiatato, la gente ci ha scoperti non perché presentati dai media ma per averci ascoltati sulle college radio o per il semplice passaparola. In loro, l’orgoglio di averti scoperto e il piacere di passare la scoperta a un amico o un’amica fanno molto. Lì funziona così.
Con i Mighty Oaks, headliner del sabato, The Peaceful Warriors e Fabe Vega. Prima ancora, venerdì primo luglio, le cave di Arzo vibreranno per i Vintage Trouble, band californiana che in carriera ha aperto per The Who, The Rolling Stones, AC/DC e molti altri numi tutelari.
Il quartetto formato da Ty Taylor (voce), Nalle Colt (chitarra), Rick Barrio Dill (basso) e Richard Danielson (batteria) si muove tra il rock-soul e il miglior groove r’n’b. Ad aprire il loro concerto i ticinesi Make Plain: ad Arzo, in esclusiva, il singolo che anticipa l’uscita del loro terzo lavoro in studio, in un 2022 che segna i dieci anni di vita artistica. (info: www.horangmusic.com, www.caveafestival.ch)