Emozioni in ‘Armageddon Time’ di James Gray; altre ancora in ‘EO’ di Jerzy Skolimowski. ‘Harka’, di Lotfy Nathan, è una testimonianza
C’è da avere paura di fronte al sole estivo e all’enorme quantità di film che prendono il posto delle nuvole nel cielo di Cannes, ognuno insiste nel voler incoronare il Festival più bello del mondo. Come una qualsiasi Alice, ci si trova immersi nella splendida meravigliosa festa di un Cinema che vive come film al di là del prodotto televisivo o da guardare in internet. Basterebbe il Concorso di oggi per dirsi contenti, far le valigie e tornare il prossimo anno, ma è tale la curiosità pinocchiesca di godere ancora del gioco che spinge l’umile critico a viaggiare ancora in questo impero dei sogni che è il Festival di Cannes. In Concorso c’erano due film d’autore, e che autori! ‘Armageddon Time’, scritto, diretto e prodotto da quel particolare cineasta che è James Gray, che con questo capolavoro torna dopo essersi avventurato lontano dalla terra natale per visitare l’Amazzonia in ‘The Lost City of Z’ e lo spazio siderale in ‘Ad Astra’, nel Queens, a New York, quartiere dove è cresciuto. L’altro film è ‘EO’ dello speciale maestro Jerzy Skolimowski, coprodotto tra Polonia e Italia e, protagonisti nel ruolo di Eo, Hola, Tako, Marietta, Ettore, Rocco e Mela, ovvero degli intercambiabili, dolcissimi, malinconici, asini.
Ma andiamo con ordine e torniamo a New York, dove James Gray ci riporta ai tempi della sua giovinezza in quegli anni 80 del secolo scorso che, complice Travolta e le sue febbri, segnarono la rivoluzione giovanile più importante, insieme al ’68, dell’intero secolo. La straordinaria bellezza del film è quella di regalarci un’istantanea familiare non patinata e ovvia, capace di svelare i semi che hanno formato l’artista, comprese le dure lezioni sull’ingiustizia che opprimono il vivere, che hanno contribuito a plasmare il suo essere e, naturalmente, il personaggio che porta sullo schermo con sobria gentilezza e con un retrogusto agrodolce. Innanzitutto si deve sottolineare la recita impeccabile di Anne Hathaway, Jeremy Strong e Anthony Hopkins, insieme a due brillanti giovani attori come Michael Banks Repeta nella parte del protagonista Paul Graff e Jaylin Webb in quella di Johnny, il suo amico mentore del suo cammino di umana formazione. Inutile dire che la palma per il cast va a un sublime Anthony Hopkins, che a 84 anni recita la parte del nonno del protagonista, mostrando la sua consumata abilità nel trasmettere un profondo pozzo emotivo con un controllo impeccabile. Scopriamo Paul (Banks Repeta), un alunno di prima media al PS 173 nel Queens alle prese con il suo insegnante, il serio e cupamente freddo signor Turkeltaub (Andrew Polk), il quale pretende altro dal bambino che le sue capacità artistiche; Paul sta provando ad assaporare l’inizio della ribellione adolescenziale ed è attirato da uno dei ragazzi neri della classe, Johnny (Jaylin Webb), già bocciato per un anno e bersaglio dell’insegnante. Succede che i due vengano scoperti a disertare la visita al MoMA dopo aver amato Kandinski e, peggio, fumato erba nella toilette, nonostante la violenta punizione del padre. I giovani vengono presi dalla polizia dopo aver rubato un computer per scappare in Florida, nella nuova scuola in cui Paul era stato spedito dopo la fumata in gabinetto. Ogni volta, Paul si trova a confronto con sé stesso in un difficile cammino iniziatico; il suo unico aiuto è il nonno, un ebreo che non dimentica il suo destino e quello della moglie, che nei bui anni nazisti ha visto freddare entrambi i genitori in quell’Europa segnata dall’odio razziale. Anche il rapporto con il padre (un grande Jeremy Strong) cambia: l’uomo che disprezza gli mostra una profonda umanità. La sua lezione è il suggello a quelle del nonno.
Il rapporto con quest’ultimo è poi suggellato da un momento di grande magia emozionale nel film, quando a Flushing Meadows, davanti alle strutture futuristiche dell’Esposizione Universale del 1964, il nonno realizza il sogno di Paul lanciando un razzo verso il cielo: il vecchio è morente, la scena è vista da sua figlia, la madre di Paul (una grandiosa Anne Hathaway), che piange consapevole di quell’ultimo appuntamento. È una rapida inquadratura intrisa di una tristezza che indugia in un film sincero ma mai sentimentale in cui c’è spazio anche per una sarcastica ironia sulle scuole in cui si forma l’egoismo e il razzismo di alunne e alunni. Scuole private, siamo all’inizio della prima presidenza Reagan. E la scuola in cui capita Paul, cui Gray fa cenno per spiegare le crescenti forze dell’odio e della divisione in America, è sostenuta da Fred Trump (John Diehl), il padre di Donald, che accoglie con scherno Paul rimproverandogli la sua discendenza ebrea. A dettare la linea è sua figlia Maryanne Trump (Jessica Chastain in un cameo). Da notare l’ironia del messaggio di lei proveniente da una famiglia per la quale il nepotismo è naturale come respirare. Un film da premio, una bella storia su un passato personale che riflettendo su altri passati precedenti, è anche molto legato al nostro presente. Un film cui contribuisce molto anche la notevole fotografia di Darius Khondji.
L’altro film in concorso – ‘EO’ di Jerzy Skolimowski, coproduzione tra Polonia e Italia – nasce da una sincera passione del regista per un mitico film di Robert Bresson, ‘Au hasard Balthazar’ (1966), il cui protagonista è un asino. Il che ha portato il critico di ‘Moving Pictures’ a chiedersi ironicamente: "Il cinema ha spazio per due film d’essai sugli asini nel suo repertorio storico?". C’è da dire che mentre l’asino di Bresson serviva a leggere il mondo umano che lo circondava, qui è finalmente protagonista del suo destino, mentre l’umanità intorno mostra tutta la sua stupidità. Vediamo tutto dal suo punto di vista, solo che lui non dà giudizi, subisce, accetta, ma anche sceglie. È un film di grande bellezza formale, che come linguaggio si avvicina alle idee di Godard e Malick, senza mai dimenticare un acceso sperimentalismo. La trama. Scopriamo l’asino protagonista in un circo dove collabora con una bella addestratrice; un gruppo di animalisti lo libera, costringendolo in una fattoria con estranei cavalli, dove lo destinano al macello insieme ai più nobili compagni. Casualmente, l’asino riesce a liberarsi in un continuo succedersi di avvenimenti, tra cui l’essere massacrato da un gruppo di tifosi, perché qualcuno gli aveva messo al collo la sciarpa con i colori degli avversari. Risanato, si ritrova in un canile dove si uccidono i cani, riesce a fuggire, e nel suo continuo viaggiare tra umanità diverse unite dal disprezzo per gli animali si ritrova a scegliere di farsi macellare insieme a una mandria di mucche senza perdere mai la sua innocenza. Da brividi la fotografia sbalorditiva e immersiva di Mychal Dymek (con filmati aggiuntivi di Pawel Edelman e Michal Englert). C’è anche spazio per un divertente cameo di Isabelle Huppert come irritata contessa, un arricchimento narrativo. Skolimowski, fa il suo cinema.
Il regista americano di origine egiziana Lotfy Nathan ha presentato il suo film ‘Harka’ nella sezione ‘Un Certain Regard’. Si tratta di un film che va a meditare sulla situazione tunisina dieci anni dopo la Rivoluzione dei gelsomini e la Primavera araba. ‘Harka’ ha un doppio significato: in Tunisia, è il gergo per l’immigrazione illegale attraverso il Mediterraneo verso l’Europa, e questo significa anche autoimmolazione. E il destino del protagonista giovane misero, Ali, che si ribella contro l’onnipresente corruzione e ingiustizia nel suo Paese, è quello di chi dieci anni prima aveva deciso d’immolarsi per protesta: un giovane come lui. Il racconto talvolta indulge troppo in luoghi comuni senza illuminarli con luci diverse. Certo, resta una testimonianza valida per comprendere chi fugge dall’insopportabile povertà rischiando anche la propria vita, comunque morta.