Quello di Luhrmann su Elvis Presley è un biopic non sempre convincente; straordinario è ‘Tori e Lokita’ dei fratelli Dardenne; delude Claire Denis
È stata la giornata dell’attesissimo ‘Elvis’ di Baz Luhrmann. Secondo molti, Elvis Presley, a eccezione dei Beatles, è la figura più mitologica nella storia della musica pop. Questo rende il raccontare la sua storia una sfida unica. Cosa c’è di più emozionante e più fantastico della realtà? La vita di Elvis Presley è già mito. Luhrmann, che ha realizzato quel capolavoro di ‘Moulin Rouge!’ (e in vent’anni non si è mai avvicinato a un simile film), non vuole fare un lavoro convenzionale su Elvis. E invece lo fa, consegnandoci un biopic non sempre convincente, sparpagliato, con una figura centrale la cui vita, per un lungo periodo, sembra non essere tanto drammatizzata quanto illustrata. Uno dei problemi del film è Austin Butler, l’attore trentenne che interpreta Elvis: ha occhi da occhio di bue e labbra angeliche, e inchioda al pavimento le mosse elettriche di "Elvis the Pelvis’. Senza una parvenza di emozioni passano i due terzi del film, ma è nell’ultima parte, quella in cui Elvis è inchiodato a Las Vegas da un contratto pazzesco, che il film, tristemente imperfetto, trova le sue emozioni più interessanti. C’è anche un narratore, l’inquietante manager di Elvis, l’uomo che per la sua avidità lo ha portato a morire a 42 anni.
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Pierfrancesco Favino
In competizione, lacrime e applausi per ‘Tori e Lokita’ dei fratelli Dardenne. Un film straordinario su una coppia di bambini cui non viene concesso il permesso di soggiorno. Loro vengono dal Benin e dal Camerun, si fanno passare per fratello e sorella e sono capitati nel Belgio, indimenticato e tragico paese colonialista. Qui dormono in una casa di accoglienza e per pagare i debiti verso chi in Belgio ce li ha portati, si arrabattano spacciando droga e portando in giro le pizze per un pizzaiolo, uno che per aiutarli ulteriormente – oltre a convincere Lokita a soddisfarlo oralmente – l’affida a un delinquente amico per fare da guardiana in un capannone in cui si coltivano piante di marijuana. Per non essere identificati dalla polizia, le ritirano il telefono ma Lokita non vuole stare lontana dal piccolo Tori. Lui, furbissim, riesce a raggiungerla, ma non tutto va liscio e il destino dei due va a colorarsi di morte. Davanti alla bara di Lokita, Tori denuncia una società incapace di accogliere seriamente. ‘Tori e Lokita’ è un film denso e duro, che graffia la pelle dello spettatore, costringendolo a non distogliere lo sguardo da uno schermo mai come così intriso di sangue.
Non convince, sempre in Concorso, ‘Nostalgia’, adattamento di Mario Martone del romanzo di Ermanno Rea. Il film racconta di un uomo che dopo quarant’anni torna nella sua Napoli, nel Rione Sanità dove è incapace di capire che i tempi hanno cambiato i luoghi e le persone, e per questo viene ucciso. Protagonista è un insoddisfacente e povero di espressione Pierfrancesco Favino, celebrato attore italiano. Martone non riesce a raccontare, resta in una blanda superficie che fa subito, per fortuna, dimenticare il film.
Su altri livelli, si parla già di una Palma d’oro, un altro film in Concorso, ‘Leila’s Brothers’ di Saeed Roustaee. Il regista iraniano ci porta all’interno di una indigente famiglia di Teheran dove i tre maschi adulti sono disoccupati e non cercano il lavoro, mentre è l’unica sorella (la bravissima Taraneh Alidoosti) a dare sostento a tutti. Senza lavoro, questi uomini hanno il fetore dei soliti scrocconi. È Leila che odia tutti, ma, ovviamente, anche lei li ama. Ma non riesce ad amare il mostruoso padre che ha allontanato qualsiasi pretendente da lei per perdere il suo stipendio, mai richiesto ai figli maschi. Ed è questo uomo il simbolo di una educazione maschilista irrispettosa di qualsiasi destino di donna. La doppiezza, l’egoismo e la stupidità dei fratelli esplodono quando Leila cerca di coinvolgerli nell’acquisto di un negozio, dove far lavorare tutti. I fratelli, dubbiosi, firmano il contratto e poi lo fanno annullare, scoprendo in poche ore che il prezzo di quel negozio che avevano pagato venti ora costa duecento; colpa della crisi, del nucleare, dell’essere un paese canaglia per gli Usa. Pur di fronte all’evidenza dell’affare che avevano mandato a monte, nessuno chiede scusa alla sorella. "Perché dovrei supportarti ancora a quarant’anni?", grida il padre alla figlia durante un litigio. "Perché non morite entrambi?", ringhia Leila ai suoi genitori. Film narrativamente esemplare, per l’uso della fotografia, la recita degli attori tutti e tutte, per un’attenzione nel montaggio e, soprattutto per le scelte narrative di Saeed Roustaee.
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Saeed Roustaee, al centro, durante la conferenza stampa di ‘Leila’s brothers’
La domanda che tutti ci siamo fatti è cosa ci faccia in Concorso a Cannes ‘Stars At Noon’ quando manifestamente non merita di essere lì. Per la reputazione della regista, l’autrice francese Claire Denis. Non si capisce perché abbia realizzato un film straordinariamente svogliato e poco convincente. Bastavano i primi venti minuti con gioiose scene di sesso sotto le gigantografie che celebravano la guerriglia sandinista per comprendere quanto era lontana la regista dal dire di quella guerra. Per il resto, contando la pessima interpretazione di tutte e tutti, del film resta polvere.
Su livelli di eccellenza si muove fuori concorso la commedia agrodolce ‘Chronique d’une liaison passagère’, firmato dal 50enne regista marsigliese Emmanuel Moure, che mette in scena una pratica della sua algebra dell’amore. Ecco tre personaggi che interferiscono tra di loro per raccontare una storia d’amore che è anche un riassunto delle intricate relazioni tra i sessi. Simon (Vincent Macaigne) e Charlotte (Sandine Kiberlain) si incontrano a una festa; lui è felicemente sposato, lei viene dalla fine di una relazione; quel primo incontro è foriero di altri e i due vanno a finire in varie camere da letto. Succede che in un museo incontrino una guida, una giovane signora ricca e annoiata, che li invita a casa sua per una relazione sessuale a tre che spaventa lui. E ne ha ragione, perché Charlotte si adegua al lesbismo della compagna d’avventura. Lui fa finta di essere sereno, ma non è vero. Quando rivede lei, vorrebbe convincerla a tornare, ha lasciato la moglie ed è solo. Ma lei ha un’altra storia in cui crede. Il regista fa sua una morale ottocentesca, quella della discrepanza tra volere e fare. La commedia è stupenda e il pubblico applaude.
A ‘Un Certain Regard’ è passato in concorso, per la prima volta a Cannes, un film del Costa Rica, ‘Domingo y la niebla’, opera seconda dello sceneggiatore/regista Ariel Escalante Meza (‘The Sound Of Things’, 2016). La prima cosa da dire è che il film ha avuto un’équipe tecnica di sole sette persone, mentre gli attori erano persone del luogo. Il risultato è un intenso poema umano, politico e sociale. Un film che rende lode alla bellezza insostituibile del grande cinema, quello che nasce per andare sullo schermo e non avrà altro luogo in cui essere visto. ‘Domingo y la niebla’ è la storia dell’anziano Domingo che vaga sulle colline costaricane mentre in lontananza si sentono i rumori e gli scoppi di un’autostrada che cancellerà quelle terre e le povere case secolari in cui abitano insieme a lui i due amici rimasti, mentre gli altri hanno già venduto tutti la casa. Domingo ha una figlia che vive in un vicino paesino di montagna, risparmiato dai lavori. Uno dei due suoi amici, pieno di debiti si suicida, l’altro vuole scappare. La figlia, quando lo vede piangere per la morte della moglie avvenuta qualche anno prima, lo rimprovera di averla sempre trascurata per ubriacarsi. Domingo vaga nella nebbia con l’impermeabile giallo, nebbia che per lui nasconde la moglie, ed è con lei che parla; viene minacciato di morte se non vende la casa e a questo punto prende il suo fucile, cosciente di andare presto tra la nebbia a far compagnia alla consorte. Le immagini sono di grande rilievo, da applausi, ma è tutto il film che dice di un mondo che cambia velocemente, chiudendosi ogni giorno la via di ritorno: ogni radice è spiantata e nessuno saprà più parlare con la nebbia.