Con una testimonianza di Tazio, figlio di ‘Ermi’, stasera su La2 il documentario ‘Gli sguardi non ritornano’. Ne parliamo col produttore, Vito Robbiani
"È una Twin Peaks che fa vittime, ma non è colpevole". Delle tante definizioni della Val Grande, pare la più incisiva. Almeno tra quelle date da Paolo Taggi in ‘Gli sguardi non ritornano’, documentario postumo dell’autore tv, sceneggiatore e scrittore italiano con ampi sprazzi di vita ticinese per la Rsi e non solo. Membro del Consiglio scientifico del Cisa, già dietro ai grandi format Rai e Mediaset, Taggi se n’è andato in gennaio per Covid lasciando un’ultima traccia di sé che, ironia della sorte, è un doppio omaggio: all’autore e a Erminio Ferrari, firma de laRegione, scrittore e uomo di montagna le cui parole avrebbero dovuto completare le testimonianze di tutti i ‘cercatori di solitudine’ che s’incamminano per la Val Grande. ‘Ermi’ che proprio tra quelle montagne, il 14 ottobre 2020, smise di scrivere.
De ‘Gli sguardi non ritornano’, in prima assoluta questa sera alle 22.45 in ‘Sguardi sul mondo’, Rsi La2 (con musiche di Sandro Schneebeli), parliamo con Vito Robbiani, cui si devono le riprese all’interno del Parco nazionale della Val Grande, ma anche produttore dell’opera per mediaTREE, in una co-produzione che include LaPress e Rsi.
Che curioso intreccio di destini, questo film. Com’è nato l’interesse di Taggi per il posto?
Paolo era venuto a conoscenza del parco in un lavoro precedente. Era rimasto affascinato dall’essere la zona wilderness più estesa d’Europa, dove spesso e volentieri le persone si perdevano per la semplice voglia di perdersi, ma a volte capitava che qualcuno si perdesse per davvero e non venisse più ritrovato. L’intervista a Erminio Ferrari era in scaletta, subito dopo quella a Teresio Valsesia. Ma l’incidente, purtroppo, ci ha preceduti. Così nel film rientra una testimonianza forte e commovente del figlio Tazio, che a nemmeno un anno dalla scomparsa ha accettato di rispondere alle domande di Paolo.
"Affrontandola si può rischiare di perdersi. Per non perderla, in tanti sono rimasti lì per sempre", dice Taggi.
Paolo conosceva Erminio, aveva letto i suoi libri, era pronto per incontrarlo. Anche lui, in un certo senso, è rimasto lì. Questo è il suo ultimo lavoro; ne aveva iniziato uno nuovo con Alberto Meroni, regista, ma ne esiste soltanto una scena. Forse Meroni lo terminerà, ma sarà sicuramente diverso.
Le riprese sono le tue, Paolo nel film ti chiede di essere la sua ombra…
Sono stato il suo occhio, il Luca che attraversa la valle alla fine sono io, e a volte da solo lo ero realmente, con l’ombra che mi aveva chiesto di riprendere. Anche perché Paolo non era uno che camminasse tanto, è anche per questo motivo che mi aveva coinvolto. A Paolo piaceva raccogliere storie ovunque esse fossero, ma raccoglierne il racconto, ascoltarle e reinterpretarle a modo suo. Ha partecipato ad alcune riprese ma sempre restando ai margini. Le ha affidate a me perché sapeva che mi piace la montagna.
"In un terreno come quello non bisognerebbe cadere, però può capitare", dice Tazio Ferrari, figlio di Erminio verso la fine del documentario, riferito al Pizzo Marona, ultima destinazione del padre.
Quel giorno ero sul posto. Avevo anche pensato di farlo il Pizzo Marona e non l’ho fatto, perché con me c’era la ultramaratoneta, come si vede nel film, che non aveva con sé l’equipaggiamento adatto. Quindi abbiamo scelto un’altra via. Ricordo di avere visto elicotteri, ma solo in un secondo tempo ho capito cos’era successo. Poi, in quel parco che non conoscevo siamo tornati per incontrare amici di Erminio, che era uno di casa, e mi ha fatto effetto. E non conoscendo il parco, per me è stato una vera scoperta: il fatto che vi si entri e il telefonino non funziona più, che non ci siano capanne custodite, tutto questo fa sì che il luogo diventi interessante e misterioso. Noi svizzeri siamo abituati a fare montagne e vette, ma in Val Grande hai l’impressione di essere veramente solo con te stesso. Credo che nel film ci sia la volontà di far scoprire questo luogo così vicino e così lontano al tempo stesso.
Che ricordo hai di Paolo?
Paolo era un vulcano. Mi manca molto. L’avevo intervistato durante il Covid per chiedergli quale fosse la sua impressione. Lui dice cose sempre brillanti, era il periodo del lockdown duro: gli chiesi di darmi un’immagine di quel momento e lui mi anticipò qualcosa che poi tutti abbiamo visto, i pinguini a spasso in un acquario che guardano meravigliati i pesci nelle vasche. Mi disse che era conscio che la scena fosse stata provocata, ma anche di come fosse emblematica dell’esperienza umana. Paolo era questo, riusciva sempre a catturare cose al di fuori del normale.