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Cercando i veri pazzi in ‘Ditegli sempre di sì’

Alla vigilia dello spettacolo di Chiasso, Carolina Rosi parla di Eduardo ma anche del padre Francesco: ‘Avevano previsto tutto, ma nulla è cambiato’

Carolina Rosi con Gianfelice Imparato (sx) e Roberto Andò
(Lia Pasqualino)
18 febbraio 2022
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L’ultima volta era Locarno. «Nella Svizzera italiana si va spesso, e si riceve sempre molto entusiasmo. Ci si vuole tornare ogni anno, è una piazza fortunata e affettuosa». Dal 2015, anno della morte del figlio del grande Eduardo, la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo ha la sola voce di Carolina Rosi, che della compagnia è a capo. Prima della trentennale carriera teatrale e del lungo sodalizio con l’erede di Eduardo, del quale è stata compagna per oltre vent’anni (moglie dal 2013), l’attrice e regista italiana esordì al cinema in ‘Cronaca di una morte annunciata’, diretta dal padre Francesco per restargli accanto fino alla fine, come aiuto regista. Napoletano come Eduardo, a Francesco Rosi (morto anch’egli nel 2015) si devono alcuni episodi di grande cinema di denuncia come ‘Le mani sulla città’ (1963, Leone d’Oro a Venezia) e ‘Il caso Mattei’ (1972, Palma d’Oro a Cannes). Diretto dalla figlia e da Didi Gnocchi, ‘Citizen Rosi’ è un ritratto del regista e un riassunto dell’intera opera, presentato a Venezia76 e vincitore del Premio Pasinetti assegnato dai giornalisti cinematografici.

Come il padre, che portò Eduardo in scena nei Duemila, sabato 19 febbraio alle 20.30 (biglietti su www.ticketcorner.ch, cassa.teatro@chiasso.ch) Carolina Rosi porta al Cinema Teatro di Chiasso uno dei primi testi di De Filippo, ‘Ditegli sempre di sì’, storia di Michele Murri (Gianfelice Imparato) commerciante di Napoli impazzito e tornato a casa dopo un anno di manicomio, affidato alle cure della Sorella Teresa (Rosi) che, per non comprometterne gli affari, sceglie di celare agli amici la verità, fingendo che il fratello sia tornato da un lungo viaggio. «È un testo meraviglioso – spiega l’attrice – che sembrerebbe essere non così conosciuto ma che poi si ritrova nella memoria collettiva alimentata dalle battute di Eduardo, molte delle quali passate alla storia». Il ‘tutto esaurito’ fatto registrare in questo allestimento è fonte di soddisfazione: «È un risultato da un lato importantissimo per il teatro in generale, e per il desiderio che ancora esiste in un pubblico, quello di voler condividere un’emozione. Non così è per il cinema, in questo periodo non fortunato che viene da una pandemia durante la quale tutti si sono attrezzati con grandi schermi e impianti dolby surround che tendono a isolarci».

Carolina Rosi: un accenno a questa versione di ‘Ditegli sempre di sì’?

È una lettura di Roberto Andò, alla sua prima regia di un testo eduardiano. Roberto è uomo del Sud, uomo siciliano che viene dal cinema, scrittore molto attento al mondo che appartiene alla drammaturgia di Eduardo. Di ‘Ditegli sempre di sì’, invece di prendere semplicemente la comicità e l’aspetto farsesco già in essa contenuti, ha voluto sottolineare gli aspetti più enigmatici, ombrosi, psicodrammatici. È quindi un alternarsi di momenti di grande divertimento a momenti di emozione e riflessione. In modo quasi pirandelliano, Andò ha esaltato parte dei contenuti della commedia stessa. Credo che il successo di questa regia stia anche in questa scelta.

Ferma restando, immagino, la domanda di fondo, ovvero chi sia il vero pazzo, collocata in un momento storico in cui il fraintendimento della realtà va in scena quotidianamente…

E con un successo clamoroso, direi. Tutto questo mentre Michele Murri, il personaggio, cerca in realtà una ragione, una verità, cerca l’esattezza dei termini, del comportamento, rifuggendo l’ambiguità e l’ipocrisia. A testimonianza di come, sì, la domanda sulla vera identità dei pazzi è sempre ben presente.

Come pensa che un autore come Eduardo, ma anche un regista come suo padre avrebbero raccontato un momento così ‘pazzesco’ come quello attuale?

Mi duole dire che tutto questo era da entrambi già stato annunciato, e nulla è mai cambiato. Anzi, probabilmente sotto alcuni aspetti è pure peggiorato. A prescindere dalle pandemie, la loro denuncia aveva fatto luce sullo stato confuso di un Paese, di un governo, sulla mancanza di presenza. Entrambi, mio padre ed Eduardo, si sono messi a disposizione di una società avendo a cuore il raccontare chi siamo e cosa dovremmo volere, un’intenzione durata tutta una vita. Succede dunque che dovendo portare in scena una commedia come questa, scritta a cavallo tra il 1926 e il 1927 e ritoccata dallo stesso autore fino alle ultime rappresentazioni, si nota come sembri scritta ieri, senza alcun riferimento epocale che la ingabbi in un’epoca: lo smarrimento, la rabbia o sensazioni proprie di altre commedie sono esattamente quelli odierni, e sono gli elementi che rendono immortali le stesse commedie. Lo dico anche per alcuni film: rivedendo ‘Il caso Mattei’ o ‘Le mani sulla città’, mi chiedo come sia possibile che tutto sia ancora valido.

A questo proposito, suo padre ha raccontato con coraggio i legami tra potere politico/economico e criminalità. Si è anche difeso da un’accusa di vilipendio per ‘Uomini contro’, colpevole di avere portato al cinema l’assurdità della guerra…

In questo senso, sono purtroppo testimone dell’incapacità di seguire quel che è stato l’insegnamento degli altri. Che ne sarebbe di Eduardo se noi, suoi eredi, non avessimo organizzato una grande mostra per i 120 anni dalla sua morte? E se non vi fosse stata la contemporaneità di film usciti quest’anno come ‘Qui rido io’ di Mario Martone o ‘I fratelli De Filippo’ di Sergio Rubini? De Filippo non è un personaggio così frequentemente ricordato, non si studia nelle scuole. Se tempo fa si fosse chiesto a un adolescente napoletano chi fosse Eduardo, avrebbe potuto risponderti "e chi è, ’nu calciatore?". Lo stesso vale per mio padre. Quest’anno cade il centenario della nascita: sono mesi che invio lettere ai musei del cinema, alle cineteche. Il fatto è che in Italia non interessa a nessuno. Oltre allo sbigottimento, nemmeno ho più la forza di farmi carico della memoria di due uomini grazie ai quali, se solo ne fossero studiate le opere, avremmo a disposizione un Bignami della storia del nostro Paese dal 1900 a oggi. Questa volontà non c’è, sta dunque agli eredi, nel bene o nel male, tentare operazioni per mantenerne in vita la memoria. Nel mio piccolo, il mio dovere l’ho fatto con ‘Citizen Rosi’.

Lei collega questa indifferenza con la categoria dei registi scomodi, a quello stesso piccolo oblìo che subì Elio Petri?

No, la collego alla pochezza delle persone poste in alcuni ambiti, che evidentemente preferiscono seguire altri filoni. Non credo si tratti di scomodità, perché mio padre ha dato fastidio in quel preciso momento e oggi quei temi nemmeno sono più scomodi. Penso invece vi sia una complessiva disattenzione culturale verso ciò che rappresentano alcuni personaggi. È vero, Petri è uno di essi, ma non mi riferisco soltanto ai registi di denuncia. Voglio parlare anche di Fellini, di tutta una generazione. Ogni volta che ne muore qualcuno, come Monica Vitti, benché lontana dalle scene da decenni a causa della malattia, o come Lina Wertmüller, se ne va un pezzo della mia infanzia, delle frequentazioni di casa, e mi sento sempre più smarrita e orfana di un filone di potenza narrativa, suggestiva, visiva, cinematografica, di punti di riferimento cui aggrapparsi. Quanto vorrei che le generazioni che non ne sanno nulla, per un puro e semplice fatto di conoscenza, fossero messe nelle condizioni di studiare il passato, che mi pare sempre più vittima del negazionismo generale.

Pur esordendo con papà, lui dietro e lei davanti alla macchina da presa, la sua vita oggi è solo ed esclusivamente teatro...

Sì, negli ultimi trent’anni la mia vita è stata questa. Fu nel mondo del teatro che conobbi Luca (De Filippo, ndr), al tempo in cui ero aiuto regista di Lina (Wertmüller, ndr). Nella scelta è contata anche la concomitanza della storia affettiva che ha interrotto un viavai continuato tra cinema e teatro durato sino a che mio padre è stato in vita, da me coltivato per stargli accanto da aiuto regista fino a ‘La tregua’, film difficile, girato per oltre un anno in Ucraina. Dopodiché è sempre stato teatro, vissuto con una persona, Luca, che di quest’arte aveva fatto una missione, non tanto nel portare avanti i testi del padre quanto per il metodo di lavoro: Luca adorava dedicarsi alla propria compagnia, ai giovani, al voler insegnare un mestiere; sarebbe stato un grandissimo maestro di recitazione e di libertà, così tangibile nella differenza dal recitare di fronte a una macchina da presa.

Ha nostalgia del cinema?

Nel mio caso, le occasioni cinematografiche sono state più quelle di essere me stessa che non un personaggio, e non credo che tutti noi siamo così interessanti da volerci riproporre. In generale, che sia cinema o teatro, sono felice di lavorare. Anche in ‘Ditemi sempre di sì’, dove ho il ruolo non da protagonista di Teresa, sorella di Michele, una donna che nemmeno ha un ruolo comico all’interno di una commedia che è tutta comica, una donna che porta su di sé il peso della consapevolezza che il fratello non può essere lasciato solo. Nemmeno il fatto che per lunga parte del secondo tempo io stia in camerino mi dà fastidio. L’importante è portare in scena un testo, come produttrice o imprenditrice, l’importante è anche il lavoro-punto. Non vivo, e non ho mai vissuto, la sensazione "se non faccio la protagonista m’ammazzo", per intenderci. Credo che la cosa derivi da mio padre, uomo molto umile, più di quanto lo fosse Eduardo, comunque confrontato, quest’ultimo, al suo essere stato mostro sacro dai diciott’anni sino alla morte, toccando punte di popolarità estrema. Mio padre invece era un uomo che a ottant’anni, fermato per strada e fatto oggetto di complimenti, rimaneva ogni volta felicemente stupito. Dev’essere quella forma di rispetto verso il semplice, verso la normalità, che lui mi ha tramandato.