Il destino televisivo si fa beffe delle necessità teatrali del libretto: sul piano visivo lo spettacolo si autoaffossa. Ma musicalmente Chailly convince
Strano destino quello dell’opera lirica quando si veste da evento televisivo, quando comprende che il suo pubblico non sono i poco più di duemila spettatori del Teatro alla Scala, ma i milioni, due questa volta, solo in Italia, che seguono lo spettacolo in tv. La dimensione teatrale esplode e talvolta, come qui, il destino televisivo si fa beffe delle necessità teatrali del libretto, lo si comprende subito in questo “Macbeth” verdiano che ha inaugurato la stagione del teatro meneghino, quando il povero Banco, in visita con Macbeth alle streghe esce con i versi: “Dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta / quella sordida barba” e attorno a lui non ha donne barbute ma un’accozzaglia di zombie che sembrano usciti/e da un film di Romero. Non è che l’inizio pensato da un regista, Davide Livermore, attento allo show più che all’opera, in fondo siamo di fronte all’ennesima brutta copia dell’operazione Gioconda con i baffi di Marcel Duchamp, affermazione del proprio io artista su opere altrui. Ed ecco che i luoghi del Macbeth dalla barbara Scozia medievale si trasferiscono in una Sin City senza tempo e il protagonista più che un re, con il suo banale impermeabile assomiglia a un boss cittadino e la sua dark lady è una mal bardata donna di mezza età un po’ sovrappeso, e il tutto volge a una guerra di bande, ridicola nel suo tentativo di rappresentare il male.
È questo il gran lavoro di Livermore e dei suoi collaboratori alla messa in scena ovvero lo scenografo Giò Forma, con i banali costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro, i prevedibili video D Work, e le stanche coreografie di Daniel Ezrakow. Se sul piano visivo lo spettacolo si autoaffossa, nulla può di più per rovinare il piano musicale guidato con sicurezza e senza sbavature da Riccardo Chailly, lui sì capace di scandagliare a fondo il tema del male che agita il Verdi di quest’opera. Chailly per questo Macbeth di Giuseppe Verdi, si è basato sulla versione del 1865 per Parigi (considerata la versione di riferimento) cui ha aggiunto l’aria finale del protagonista nella versione andata in scena al Teatro La Pergola di Firenze il 14 marzo 1847, per dare a Luca Salsi (Macbeth) la possibilità di terminare con un grande brano vocale. Luca Salsi non è certo Macbeth, non ne ha la struttura vocale, canta bene, si muove con decisa sicurezza, ma non è il personaggio dipinto da Verdi, lo stesso si deve dire per la Lady Macbeth di Anna Netrebko: non è la Lady, canta la parte e si ferma lì, ed è un delitto, proprio qui alla Scala dove il 7 dicembre 1952 con Maria Callas quest’opera è stata tratta dall’oblio. Per Lady Macbeth ci vuole – come diceva Verdi – una “voce sporca”, quello che la mozartiana Netrebko non ha, quello che la Callas poteva avere. Non si può che dire bene per la prestazione del tenore Francesco Meli (Macduff) e del basso Ildar Abdrazakov (Banco), bello lo squillo di Iván Ayón Rivas. Incisivo, vocalmente, il coro del maestro Alberto Malazzi (che ha preso il posto dello storico Bruno Casoni andato in pensione). Tra gli applausi il Macbeth di Sin City ha chiuso il sipario e spento il collegamento tv.