È uno spettacolo – quello diretto da Flavio Stroppini e tratto dall’opera di Max Frisch – curato in ogni dettaglio. Brillanti i due protagonisti
L’8 agosto 1978 in Ticino fu il finimondo: soprattutto nel Locarnese una serie di violenti nubifragi causò danni incalcolabili e purtroppo anche molte vittime. Nella sua casa di Berzona, dove trascorreva parecchio tempo, soprattutto d’estate, Max Frisch vide lo scatenarsi della natura e forse furono quelle ore drammatiche a suggerirgli la stesura definitiva di un romanzo cui stava lavorando da tempo, “L’uomo nell’Olocene”. Una narrazione composita, senza una trama precisa; un lungo flusso di coscienza, un puzzle dove le tessere sono pensieri, aforismi, estratti da enciclopedie, ritagli di giornali e bizzarri elenchi: catalogazioni di tutti i tipi di tuoni possibili, la durata delle ere geologiche ma anche quanto si trova nel frigo del signor Geiser. È lui al centro del racconto, questo anziano signore basilese che ha scelto di vivere in una valle angusta, “buona per le capre”!
Nella riduzione teatrale andata finalmente in scena al Sociale di Bellinzona (che ha prodotto lo spettacolo con un’importante quanto ambiziosa operazione culturale: si vorrebbe riaccendere l’interesse per Frisch anche in Italia, dove sembra dimenticato), il regista Flavio Stroppini e la sua fedele complice Monica De Benedictis affiancano al signor Geiser (Rocco Schira, cognome tipicamente onsernonese) la figlia Corinne (Margherita Saltamacchia), appena citata in un paio di paragrafi nel romanzo. Le annotazioni di Frisch diventano così un dialogo tra i due, o per meglio dire un paio di monologhi a sé stanti perché, alle frasi dell’uno, l’altra risponde in modo spesso incongruente. Talvolta le loro voci si sovrappongono, talaltra si esprimono all’unisono. I due attori non si guardano né si toccano, muovendosi in quella che più di una scenografia è un’installazione video: tre schermi in plexiglas, un trittico dove scorrono immagini che portano lo spettatore dalla calda intimità di una casa dove il caminetto è sempre acceso (“Di legna ce n’è in abbondanza”) alla bellezza di boschi e ruscelli. Temendo di perdere man mano la memoria, il signor Geiser scrive “ciò che val la pena di sapere” su una serie di foglietti che poi sistema con delle puntine sulle pareti di casa. È qui evidente il riferimento a quell’eccentrico personaggio che fu Armand Schulthess, il quale trasformò il suo giardino di Auressio (pochi chilometri da Berzona) in un’enciclopedia a cielo aperto, appendendo sugli alberi un migliaio di placche di metallo sulle quali incise brevi riflessioni su filosofia, psicanalisi, letteratura, musica e addirittura astronomia. Un riferimento reso ancor più concreto quando sul palco piovono svolazzando i bigliettini di Geiser. Mentre sul trittico le immagini del focolare lasciano il posto a quelle della natura, selvaggia e sferzata dal vento o soave come il tranquillo scorrere di un ruscello, sul palco si diffonde una nebbiolina forse troppo timida per evocare le vere autunnali brume vallerane, Schira si cimenta in un assolo di danza – illuminato dalle luci stroboscopiche da discoteca – e Saltamacchia sembra mimetizzarsi dentro il fogliame che vediamo su uno schermo. È una delle tante scene pregnanti e incisive di uno spettacolo composito, curato in ogni dettaglio: quando ad esempio il signor Geiser si rende conto che rischia davvero di perdere la memoria, il viso di Rocco è illuminato in modo da farlo apparire una maschera di cera. La sua mente si aggrappa a ricordi curiosi slegati tra loro: in Ticino non ci sono mai stati vulcani; da qui son forse passati Annibale coi suoi elefanti e il generale Suvorov. Frisch si fa altresì profeta (il romanzo uscì nel 1979) dei nostri attuali guai ambientali: alla fine dell’era glaciale il livello del mare era più basso di almeno cento metri; tra il 1890 e il 1926 la Maggia ha depositato sul delta qualcosa come 550mila metri cubi di ghiaia, roba che riempirebbe 55mila vagoni ferroviari! Un turbinio di pensieri sottolineato pure dallo scorrere sempre più vorticoso delle immagini sul già citato trittico (peccato che un faretto puntato troppo insistentemente sulla platea abbia disturbato qualche spettatore).
Le musiche di Andrea Manzoni, eseguite da Matilde Colliard al violoncello e Martino Pini alle chitarre, ci accompagnano verso un epilogo che riporta al punto di partenza, al formidabile incipit del romanzo e dello spettacolo: “Si dovrebbe poter fabbricare una pagoda di crackers, non pensare a niente, non udire tuono, né pioggia, né lo sgocciolìo della grondaia, né il gorgoglìo tutt’intorno alla casa. Forse la pagoda non viene, ma la notte passa”.
Meritatissimi gli applausi a tutta la troupe e in particolare ai due protagonisti, i quali – già in questa felice “prima” – non hanno sbagliato una sola battuta e hanno brillantemente gestito la prossemica celata dietro il loro interagire in uno spettacolo che sarebbe peccato lasciarsi sfuggire! Si replica sino a domenica pomeriggio. Info e orari: www.teatrosociale.ch.