Morì il 24 novembre del 1991 dopo un testamento, suo e dei Queen, intitolato ‘Innuendo’. Poi, ulteriormente alimentata da Hollywood, l’immortalità
“Se la canzone più famosa dei Queen non mi conquistò subito, altrettanto non posso dire di Freddie Mercury. Me ne innamorai nell’istante in cui lo conobbi. Come da tradizione, aveva anche lui un soprannome femminile: Melina, dall’attrice greca Melina Mercouri. Era straordinario, incredibilmente elegante e coraggioso. Da un lato generoso e sollecito, ma dall’altro ti faceva morire dal ridere. Quando uscivamo con lui passavamo la serata a sbellicarci. Non risparmiava nessuno, nemmeno i suoi compagni dei Queen: «L’hai vista la chitarrista, tesoro? La Signora May? Hai visto cosa mette sul palco? Gli zoccoli! Come ho fatto a finire sul palco con una c**** di chitarrista che si mette gli zoccoli?»”.
Quanto doveva essere divertente trascorrere una serata con Elton John, per tutti Sharon, e Freddie ‘Melina’ Mercury. A volte si univa anche Rod Stewart, detto Phillys, tutte a spettegolare di Mahalia, e cioè di Michael Jackson, da Mahalia Jackson, regina di quel gospel che Mercury amava tanto. Mahalia che una volta aveva fatto imbestialire Melina tentando di mostrargli il suo zoo privato...
[...] Inside my heart is breaking / My makeup may be flaking / But my smile, still, stays on [...]
Per amicizia e alto tasso d’ironia comune a entrambi, partiamo dall’autobiografia di Elton John per scrivere di un monumento della musica scomparso trent’anni fa, la cui morte fu decisiva per la nascita dell’Elton John Aids Foundation, uno dei punti di riferimento della lotta contro un malattia che nel 1991 offriva poche alternative. L’accostamento tra punti di riferimento del mondo gay e della musica tutta porta a una canzone: quando i Queen ricordano il loro frontman la notte del 20 aprile 1992 a Wembley, nello storico Freddie Mercury’s Tribute, affidano a Sir Elton ‘The Show Must Go On’, che solo tecnicamente non è il testamento di Mercury (il brano è della ‘Signora May’, che con pudore chiese a Freddie se quel titolo non fosse un po’ troppo per lui), ma che per solennità rock-operistica è l’addio di tutti gli addii, forte di uno statement da gente di spettacolo senza appello e tratto da un più generale testamento intitolato ‘Innuendo’, ultimo album del Mercury da vivo che ancora aggiunge rimpianti su cosa sarebbero stati i Queen oggi, tutti in salute.
‘Innuendo’ contiene altri testamenti. Uno involontario, ‘These Are the Days Of Our Lives’, nemmeno questo farina di Freddie, ma una cosa di Roger Taylor scritta riferendosi ai propri figli che messa in bocca allo scheletrico Mercury del videoclip ci mise un attimo ad assumere altro significato; e uno più volontario intitolato ‘I’m Going Slightly Mad’, affidato al grottesco e al bianco e nero, per camuffare un uomo ormai giunto alla fine. Altra scuola di pensiero, in ambiti testamentari, parla di ‘Was It All Worth It’ (Ne è valsa la pena), su ‘The Miracle’ del 1989, uscito due anni dopo che della malattia, tenuta nascosta ai media fino alla fine, fu informato il solo manager personale. Qualunque sia il testamento, in mezzo ai piccoli falsi storici temporali voluti da Taylor e dalla Signora May, che lo hanno curato in ogni sua parte, nel biopic da Oscar ‘Bohemian Rhapsody’ (statuetta all’attore Rami Malek, da Mercury separato alla nascita) stanno in bella mostra vita, morte e miracoli artistici di Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar il 5 settembre del 1946 e morto a Londra all’età di 45 anni nel clamore che può provocare la dipartita di uno dei più grandi frontman che il rock ricordi e, insieme, in una riservatezza d’altri tempi.
Al netto di un racconto leggermente autoriferito (May e Taylor, supervisori dell’intero progetto), il film di Brian Singer è un buon sunto della parabola terrena di Freddie Mercury, ex giovane e timido immigrato alle prese con l’integrazione nel tessuto sociale britannico dei primi Sessanta, poco aiutato da una dentatura che non passava inosservata; la passione per la lirica, per Broadway, per rock e glam rock, l’incontro con i futuri Queen e quel singolo da oltre sei minuti chiamato come il film, ‘Bohemian Rhapsody’, pianisticamente sontuoso, dai cori rivoluzionari, difeso con le unghie, finito in vetta contro tutto e tutti. E poi il successo a colpi d’inni, dalle ormai calcistiche ‘We Are The Champions’ e ‘We Will Rock You’ all’irresistibile crossdressing di ‘I Want To Break Free’, alla futuristica ‘Radio Ga Ga’ da cui Lady. Inclusi eccessi, dipendenze, grandi intuizioni e le misere cadute del Mercury ‘tenore’ in ‘Barcelona’ con Montserrat Caballé e, ancor prima, quello di Monaco di Baviera nella almeno discutibile parentesi solista dance di ‘Mr. Bad Guy’. Incluso il Mercury di ‘Love Of My Life’, l’amore eterno che nel tempo assume altre forme, fino al figliol prodigo che torna per il Live Aid, ricostruzione digitale cui si deve, insieme al lavoro attoriale di Malek, quell’eternità che solo Hollywood può dare.
‘Voleva essere Aretha Franklin’
Per chi è abituato a festeggiare le ricorrenze di dieci in dieci, o di cinque in cinque, quest’anno ne cade una ulteriore ed è un 45ennale. Un salto indietro al 1976 a quando, una volta uscito ‘A Night At The opera’ (l’anno prima), tutti sono alla finestra in attesa di un’altra ‘Bohemian Rhapsody’. Il quinto e nuovo album dei Queen, ‘A Day at the Races’, ispirato così come il precedente a un film dei fratelli Marx e dall’impostazione grafica simile (May premeva per la pubblicazione in contemporanea dei due dischi, ma i discografici preferirono non rischiare) esce il 18 dicembre del 1976 tra ovazioni e qualche giudizio intermedio (“Hanno abbandonato l’art-rock, ora sono sciocchi e meravigliosamente spudorati”, scrive il Circus, magazine del rock al tempo assai influente). Il singolo designato a trainare il nuovo disco s’intitola ‘Somebody To Love’. L’amore, musicalmente parlando, è quello di Freddie Mercury per il gospel; visto che di Queen si parla, l’amore di Mercury per la regina del gospel, Aretha Franklin. “Ero un po’ ossessionato dall’approccio che aveva nei suoi primi album”, dice il frontman a proposito della cantante qualche anno più tardi; “Freddie voleva essere Aretha Franklin”, dirà ancor più in là nel tempo Brian May, entrando nel merito di un coro che in ‘Bohemian Rhapsody’ era tipicamente inglese, e in ‘Somebody To Love’ diventava gospel tout court.
“La gente, non importa quanto lavori duramente, pensa sempre in termini di successi passati. Ma i musicisti non la pensano allo stesso modo”. Per cui, «sì, ‘Bohemian Rhapsody’ è un grande successo, ma io penso sempre di poter scrivere meglio. E credo che ‘Somebody To Love’, dal punto di vista della scrittura, sia un pezzo migliore”. Parole di Mercury in ‘Queen - The Greatest’, un anno di pillole – da marzo 2021 a marzo 2022, anche inedite – sul canale ufficiale YouTube della band. Nella pillola di maggio, in particolare, scorrono una prima epica versione al Milton Keynes Bowl nel 1982, seguita a ruota da quello che a tutt’oggi è uno dei rari esempi in cui una cover ha poco da invidiare all’originale, e cioè George Michael nel vecchio Wembley Stadium nel suddetto ‘Tribute’ del 1992 con quel che restava dei Queen, più il London Gospel Choir. Nel maggio del 1993, l’ex Wham riuscirà a salire sul podio delle chart inglesi laddove la versione originale del 1976 non era arrivata per poco, con un’esecuzione di tale fluidità vocale da far sembrare la sua ‘Somebody To Love’ la cosa più facile del mondo. E anche la più bella.