Questa sera alle 18.30, l’arpa celtica del primo divulgatore italiano dello strumento approda a Maroggia nella Tree House di Tondo Music, col nuovo album
Alla Chiesa di Santa Maria degli Angeli, detta anche ‘di Mario Botta’, lo hanno voluto per festeggiare i trent’anni dalla sua creazione. È di casa al Monte Verità, al Centro tibetano di Arosio e in Valle Verzasca, dove ha amici da quarant’anni. E tra gli amici, in Ticino, c’è anche Giovanni Galfetti, nei Laetimusici. In Svizzera tedesca, invece, gli amici sono Andreas Vollenweider, Walter Keiser. In Piazza Riforma, e in ogni altro luogo svizzero deputato alla musica, Vincenzo Zitello ha portato la sua arpa celtica, della quale è stato il primo, storico divulgatore in Italia.
Il polistrumentista e compositore sarà di casa anche da Tondo Music a Maroggia, tempio del vinile che lo ospita nella sua Tree Room stasera alle 18.30 per presentare l’ultimo suo album ‘Mostri e prodigi’, con esibizione allo strumento e annessi e connessi chiamati ‘firmacopie’. Percorriamo con lui, a poche ore dall’happening, la sua storia, passata e presente.
Vincenzo Zitello, partiamo dal presente: chi sono, o cosa sono, ‘Mostri e prodigi’?
Questo disco è nato nel periodo della pandemia, nel pieno di un’atmosfera mostruosa. Tra le pieghe di questa mostruosità, di ansia e angoscia soprattutto iniziali, ho pensato che ci potesse essere nascosto un prodigio, la scoperta di quanto coltivato in tutti questi anni, cose che non mi hanno abbandonato nel momento di difficoltà estrema e che si collocano anche in una situazione personale di amicizia con Franco Battiato, che conosco da quando avevo 15 anni e del quale sapevo del suo non stare bene. Ho cercato elementi che non fossero né divini né umani, trovandoli nel bestiario medievale, nel quale a mio parere esiste quella situazione intermedia che può essere mostruosità ma anche prodigio. E io ho cercato il prodigio, anche se il contrario sarebbe potuto essere più attraente. Ma di poeti e musicisti maledetti ce ne sono stati troppi e io non ho più voglia di pagare pegno per questo. Preferisco pagarlo per una coscienza diversa, e un mondo più empatico e vivo.
Possiamo intendere come prodigio anche quello di tornare a suonare?
Sì e ho ritrovato davanti a me tanta gente, anche se molto cambiata. In alcune occasioni, per accogliere tutti in sicurezza, ho dovuto replicare nella stessa sera e l’ho fatto volentieri. Mi è sembrato il modo migliore per ringraziare chi è venuto a mantenere viva la mia stessa vita, sobbarcandosi di mille attenzioni, mascherina, pass, tamponi, scendendo ancor più in profondità nella mia musica attraverso i concerti, l’unica vera musica, quella che si fa in quel momento e per questo unica e irripetibile.
Un passo indietro. L’arpa celtica non fu una prima scelta: l’elemento scatenante?
Un disco intitolato ‘Reinassance de la harpe celtique’ di Alan Stivell, che mi folgorò, tanto da spingermi a cercare questo strumento, trovato nell’aprile del 1977 dopo tre anni di ricerca, pagato quanto all’epoca costava una Fiat 500 full optional, e cioè 500mila lire.
Prima erano il flauto e la viola, che ti lega proprio a Battiato…
Sì. Io sono di estrazione classica, ascolti e ricerche mi hanno portato molto presto verso la musica contemporanea, verso la dodecafonia, intesa anche come territori culturali e mentali che mi hanno inevitabilmente avvicinato a Battiato. All’epoca suonavo la viola e facevo cose sperimentali, con echi, riverberi e registratori; nel 1975 partecipai alla tournée del Telaio Magnetico di Battiato, gruppo da lui fondato in quell’anno; l’incontro fu fondamentale per la mia carriera, Franco produsse anche il disco degli A ’sciara (duo Zitello-Saro Cosentino, ndr) e io partecipai a un suo tour. Ma tutto questo, e quel che è accaduto in seguito, fa parte di un legame durato negli anni.
Durato, immagino, sino alla fine…
Conoscevo le sue condizioni di salute, al di là di voci ridicole che dicevano di una presunta demenza. È semplicemente che quando qualcuno soffre, non può essere la stessa persona vista sul palco. Temo che Franco volesse andare da un’altra parte, che si fosse detto che stare così male non era vita.
Alan Stivell, Franco Battiato. La terza persona importante, hai dichiarato, ‘scusandoti’ con gli altri chansonnier, è Ivano Fossati. Di lui dici di aver preso la sensibilità e la chiarezza del racconto…
Se Franco era un visionario coi piedi per terra, Ivano mi ha catturato con ‘La pianta del te’. Al tempo ero prodotto da Allan Goldberg, fu lui a introdurci. Ma io, suonando il flauto, non potevo non conoscere il Fossati che suonava il flauto nei Delirium. Uno dei miei primi amori, prima di conoscere i Jethro Tull, fu proprio il flauto in ‘Jesahel’. Durante le prove dei tour con Ivano, nei quali mi occupavo io del flauto, con lui al piano suonavamo ‘Dolce acqua’, ‘Il lago di Kriss’ (Favola o storia del lago di Kriss – Libertà, ndr), dicendoci che avremmo potuto farne una dal vivo. Ma ormai Ivano era altrove. Al di là di questo, la commistione di suoni e persone di quel suo momento artistico è stata un’esperienza enorme per me e per tutti coloro che vi hanno partecipato, commistione che non ho più rivisto nel resto della sua carriera.
A parte quella composta, registrata ed eseguita dal vivo, quale musica ascolta Vincenzo Zitello?
Tanta classica, e cantautori. A volte mi sorprendo ad ascoltare alcune canzoni che negli anni non avevo compreso, o sottovalutato. Non mi succede spesso con la musica, ma con musica e parole insieme sì. Ricordo che non amavo ‘La musica che gira intorno’, che ho invece rivalutato partendo dal testo, così emotivo. Ascolto etnica, e del jazz, ma una volta sola, come quei film che trovi molto belli ma non riguarderai. Di certa musica classica, al contrario, non smetto di contemplare la meraviglia della sua architettura. Mi è successo ultimamente con un trio pianoforte-violino-violoncello di Beethoven, dentro il quale convive metà storia del jazz, inteso come intenzioni.
Beethoven jazzista, seduto al piano, curvo come Bill Evans. Immagine affascinante...
Perché il jazz non sono le note ma il modo in cui si pensa la musica. Il resto sono stilemi. Ho fatto un lavoro con Daniele Di Bonaventura (‘Nudo’, 2020), che suona il bandoneon con Fresu. È un vero jazzista. È diplomato in pianoforte, ma ha la mentalità jazz. Può farti un disco di jazz improvvisando su un clavicembalo, ed è quello che ha fatto. L’assenza di barriere ci ha dato il bebop, Coltrane, Monk e tutti i grandi. Oggi ci sono bravissimi musicisti che suonano bene gli stilemi del jazz, ma senza averne la personalità.
Per finire: cosa è cambiato da ‘Et vice versa’ a oggi?
Dal punto di vista della creatività, perché il mercato non esiste più, veramente poco. La traiettoria, per una serie di condizioni, è cambiata pur non discostandosi troppo da ‘Et vice versa’. Non ho mai inteso l’ultimo disco come il mio disco di riferimento personale totale, ma come l’ultimo percorso che ho completato. Non intendo mai un disco come nuovo o vecchio, ma come un passaggio del tempo legato al mio presente. In questo, essendo io molto prolifico nella scrittura, come lo era lui, mi ha aiutato Ivano, che era solito dirmi: “Una volta fissata l’uscita del tuo disco, usa i pezzi migliori che hai scritto fino a quel momento”. E aveva ragione, è l’unica soluzione che può azzerare il concetto di tempo. (www.vincenzozitello.it)