Oltre ai premi da copertina, i riconoscimenti a un artista senza tempo e a un re del jazz appena scomparso, che affida alla moglie il suo grazie alla musica.
Ai Grammy Awards, gli Oscar della musica, manca soltanto la Best Performance Under The Shower (Miglior esecuzione sotto la doccia) e le categorie ci sono tutte. Se l’Academy del cinema ha rigettato negli anni riconoscimenti più tecnici come quello al casting, agli stunt e al miglior designer di titoli di testa e di coda, l’Academy della musica – National Academy of Recording Arts and Sciences, più brevemente detta Recording Academy, artisti e tecnici statunitensi appartenenti all’industria musicale – arriva sino alle migliori note interne (il librettino coi nomi di tutti di cui Spotify ci priva, una mezza violenza fisica) e addirittura il Miglior cofanetto o package edizione limitata, andato quest’anno agli art director della band Wilco, che hanno battuto quelli di Paul McCartney per l’edizione per collezionisti di ‘Faming Pie’. Che il Grammy parli al femminile è noto, e lasciamo the best for last, per soffermarci su alcuni capitoli di storia americana anche toccanti. Due in particolare.
“Abbiamo appena ricevuto la notizia. Che situazione imbarazzante essere qui tra le montagne a sciare sapendo che abbiamo vinto un Grammy per ‘American Standard’”. Da quella che pare essere una cabinovia viaggiante tra le vette (devono essere le vette del Massachusets, visto che l’artista di casa sta a Martha’s Vineyard, set naturale di un imprescindibile dvd live del 1993 chiamato ‘Squibnocked’), James Taylor alza gli occhialoni da discesa libera e con le racchette in grembo ringrazia tutti coloro i quali hanno lavorato con lui per l’album vincitore nella categoria Best Traditional Pop Vocal Album. Dove ‘Pop’ è da intendersi nella più nobile delle accezioni. Nel suo viaggio sobbalzante tra gli abeti – postato poco dopo le foto post-vaccinazione – il cantautore ringrazia l’etichetta, la moglie Kim e il cantante/chitarrista John Pizzarelli, co-produttore e co-suonatore dell’opera appena premiata. “Accetto questo Grammy della neve”, dice il singer songwriter a fine corsa, spinto dalla stessa proverbiale leggerezza con la quale dal 1971, tra fuoco e pioggia, porta avanti la più coerente delle carriere di un musicista vero applicato al music business, iniziata con un viaggio a Londra nel 1968 per fare ascoltare ai Beatles la sua ‘Something In The Way She Moves’: tanto piacque, quella canzone, che George Harrison prese ‘in prestito’ la prima strofa per aprirci la sua ‘Something’. E in cambio Taylor divenne per un po’ un artista Apple (la Apple dei Beatles, non quella dei computer).
Quello vinto da James Vernon Taylor da Boston (Massachusets, appunto), 73 anni lo scorso 12 marzo, è la cronaca di un Grammy annunciato ma non scontato. “Sono canzoni che stavano tra i dischi dei miei genitori, brani che conosco da quando ero bambino e ho ascoltato all’infinito: mi sdraiavo per terra, davo un paio di occhiate ai testi, rimanevo incantato dalla copertina e poi mi tuffavo nella musica”. In ‘American Standard’ vive una manciata di capitoli del canzoniere americano rivisitati alla James Taylor, in modalità “scelgo il brano con il quale sento un legame e lo suono con il mio vocabolario”. Accade con ‘Moon River’ (1962, da ‘Colazione da Tiffany’), con ‘Teach Me Tonight’ (1953, nota nella versione di Dinah Washington), con ‘God Bless The Child’ di Billie Holiday e altri 11 titoli resi ulteriormente standard in quanto James Taylor, egli stesso, standard (vivente).
Sono molti gli affezionati al Grammy. Nel Country se ne aggiudica più o meno un all’anno Vince Gill (Best Solo Performance), qui al suo 22esimo grammofono; Miranda Lambert è il suo terzo (Best Album). E Dolly Parton, insieme al christian singer Zach Williams, conquista il suo decimo per la migliore christian song. Ma a colpire, scorrendo i premi, sono quelli postumi. A partire da John Prine, cantautore morto nell’aprile del 2020, doppio Grammy ‘alle radici’ per ‘I Remember Everything’ (Best American Roots Performance e anche Song). Colpisce soprattutto – la sua dipartita è più recente – il doppio Grammy a Chick Corea per il solo su ‘All Blues’, all’interno dell’altrettanto Grammy ‘Trilogy 2’ (Best Jazz Instrumental Album), nel trio con Christian McBride, contrabbasso, e Brian Blade, batteria.
“Sono onorata di accettare questo award per conto del mio amato marito da 50 anni, mio migliore amico ed eroe. Credo che Chick – dice Gayle Morgan, vocalist, tastierista e songwriter – vorrebbe ringraziare tante persone. Ha ascoltato e imparato da tutti». E Chick, dall’alto o ovunque egli si trovi (anche da nessuna parte), ringrazia Christian McBride per il disco e anche Miles Davis: “Chick è stato onorato di essere nella sua band. Ha suonato le sue note anche nelle ultime ore in famiglia”, dice Morgan. Un grazie a Stevie Wonder, “buon amico negli anni ’70, genio della creatività, i suoi messaggi d’amore mi hanno sempre ispirato”, un grazie a Ron Hubbard (sì, Corea fu scientologico) e uno a Martin Luther King “per la volontà e il coraggio di combattere senza sosta per i diritti umani”. Un grazie anche a “tutti coloro i quali tengono accesa la fiamma della musica”. E la cerimonia, nelle modalità asettiche che abbiamo imparato a conoscere dal febbraio del 2020, ha un sussulto.
Lo abbiamo già scritto. Il premio che fa notizia è cosa per Billie Eilish: il suo Record Of The Year fa il paio con la messe di Grammy del 2020 e con l’outfit di quest’anno (cui abbiamo dedicato l'ultima pagina del giornale). A seguire, per importanza di premio, Taylor Swift è Album Of The Year per ‘Folklore’, terzo riconoscimento nella stessa categoria: Swift, mai nessuna donna prima di lei, eguaglia Paul Simon, Frank Sinatra e Stevie Wonder. La terza notizia è il 28esimo Grammy di Beyoncé: i quattro di questa edizione – miglior video per ’Brown Skin Girl’, migliore performance rap e migliore canzone rap per ’Savage’ insieme a Megan Thee Stallion, e migliore performance R&B per ’Black Parade’ – scalzano Alison Krauss dalla vetta (27 grammofoni per la cantante e violinista statunitense). È donna anche la canzone dell’anno, ‘I Can’t Breathe’ di H.E.R. (anche Best New Artist). Gli uomini? Nelle categorie altisonanti si consolano con Harry Styles, ‘Best Pop Solo Performance’ per ‘Watermelon Sugar’.