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Il ‘dizionario minimo’ della pandemia al Teatro Sociale

Flavio Stroppini ci racconta il progetto ‘Semplici parole’: 250 termini per dare un senso a questi strani giorni. E per riempire il vuoto dei teatri

13 gennaio 2021
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‘Stordimento’, ‘Incertezza’, ‘Non’, ‘Reinventarsi’. Sono alcune delle 250 parole che, domani giovedì 14 gennaio dalle 18 alle 23, riempiranno un vuoto: quello del Teatro Sociale di Bellinzona, chiuso come gli altri luoghi di cultura, che con la performance in streaming ‘Semplici Parole’ sfrutterà il web per essere comunque vicino al proprio pubblico; ma anche il vuoto di senso di questa pandemia.

“Per te, tutto questo, che parola è?” è la domanda che Flavio Stroppini e i suoi collaboratori hanno posto, raccogliendo un migliaio di risposte. Ne sono state selezionate, appunto, 250: a ognuna di essere Stroppini dedicherà un minuto o poco più, leggendole e raccontandole in streaming.

La performance verrà trasmessa sulle pagine Facebook di @sempliciparole2020@nucleomeccanico@teatrosociale@casadellaletteratura; sui canali YouTube di
Nucleo Meccanico, del Teatro Sociale Bellinzona e della Casa della Letteratura oltre che sul nostro sito internet.

Flavio Stroppini: parliamo di ‘Semplici parole’, ma forse conviene partirà da un’immagine: quella della medusa che vediamo rappresentare questo progetto.

C’è il riferimento al mito, ovviamente, e la medusa è un animale che vediamo fluttuare con leggerezza, vediamo la bellezza dei suoi movimenti. Ma la medusa è anche un animale velenoso, il tocco può essere letale. Le meduse non si toccano tra di loro, sembrano comunità ma vivono in un modo che sembra molto il nostro in questo periodo: cercano la vicinanza, cercano la leggerezza, ma se toccano possono diventare carnefici.

E le meduse vivono come noi tra queste onde di grafici, di informazioni, di continue nuove domande su quello che succederà.

Le meduse sono trascinate da questa corrente di grafici e informazioni; noi vorremmo riuscire a nuotare, a trovare o dare un senso. Il teatro può aiutarci?

Sì: il teatro in questo momento deve cercare di raccontare quel che ci sta succedendo. Non con uno sguardo giornalistico, ma con uno sguardo artistico: deve farci riflettere su quello che stiamo vivendo, su quello che siamo, dare la possibilità di creare comunità, di creare interazione tra le persone. Io la penso come Majakovskij: l’arte non è lo specchio cui riflettere il mondo, ma il martello con cui forgiarlo.

Attraverso un linguaggio comune che mi pare essere il tema di Semplici parole.

In un periodo in cui ognuno dice la sua a volte non ascoltando gli altri, l’idea è cercare di ascoltarci, dando una parola a ognuno e cercando di riflettere su queste parole. Il mio è uno dei miliardi di possibilità di linguaggio comune. Se tutti facessimo questo lavoro di ascolto, forse le cose andrebbero meglio, saremmo un po’ più uniti.

250 parole. C’è un motivo dietro questo numero?

Secondo alcuni studi, 250 è il numero di parole necessarie per potersela cavare, per sopravvivere in qualsiasi luogo in cui si parla una lingua diversa dalla nostra. Il minimo indispensabile per riuscire a comunicare, fare la spesa, andare in giro.

Sono arrivate le parole isolate o anche delle descrizioni?

Il lavoro di raccolta è stato molto interessante e infatti una rivista di etnografia digitale farà uscire uno studio. Le parole sono arrivate “a bolle”, a seconda della situazione e del tipo di restrizioni che stavamo vivendo. Nei periodi più difficili, in molti oltre alla parola ci tenevano a spiegare, a ragionare sul perché hanno scelto proprio quella parole.
E anche sulla difficoltà di trovare una parola sola: nei momenti diciamo più leggeri, più tranquilli, era facile, ma nei periodi più difficili si avvertiva la necessità di spiegare perché certe parole erano state escluse.

C’è stata qualche parola particolarmente importante?

Una in particolare no: tutte, nel loro percorso, mi hanno fatto riflettere su spezzoni di realtà che non avevo considerato. Sono le storie, i concetti che stanno dietro ogni parola, anche la più banale: la persona che ha scritto ‘Lidl’ alla fine sta raccontando qualcosa. Io ho pensato alla difficoltà di trovare lievito e carta igienica, alle file davanti ai supermercati, a mia madre che non sapeva a che ora andare a fare la spesa per non trovare gente.

Il 14 queste parole saranno presentate in streaming.

Esatto: leggerò dei testi, racconterò brevemente queste parole. Sono anche previsti quattro interventi di un musicista, Andrea Manzoni, collegato da casa sua. Abbiamo anche deciso, tramite una cinquantina di webcam in giro per il mondo, di mostrare quello che sta accadendo mentre noi in un teatro a ridosso della Alpi stiamo cercando di creare questo linguaggio comune.

Perché andare proprio in teatro, a leggere queste parole?

Perché il teatro è il luogo in cui si crea comunità, e il Teatro Sociale come storia e come programmazione cerca proprio questo: il racconto della comunità.

Per affrontare questa pandemia le autorità hanno deciso di chiudere i teatri: è una scelta tosta, ma non la voglio criticare pur non capendola – penso che dovrebbero esserci le stesse regole per tutti, mentre quando andavo a fare le prove per lo spettacolo ‘Olocene’ al sabato vedevo il mercato aperto e, lo ammetto, mi giravano un po’ le scatole.
Il teatro è quindi il luogo dove si racconta quello che succede e l’immagine di un teatro vuoto è secondo me molto forte. È da quella immagine che si può iniziare a ricostruire qualcosa.

Adesso lo streaming online. E dopo? ‘Semplici parole’ potrebbe diventare uno spettacolo teatrale tradizionale, in presenza?

Difficile, perché è proprio strutturato per il web. Penso piuttosto a uno studio su quello che è successo: una volta che saremo tornati a una quotidianità più o meno normale sarà necessario riflettere su quello che è successo e mi piacerebbe studiare queste parole, studiare tutto quello che è stato fatto per cercare di capire.
Quindi sì, mi piacerebbe continuare a far vivere questo lavoro, ma non so ancora le modalità.

Il teatro continuerà a fare i conti con la pandemia, con questi strani giorni.

Abbiamo un migliaio di persone che hanno sentito l’esigenza di comunicare con noi. È un patrimonio di vicinanza che non vorrei perdere.