Incontriamo il regista per un bilancio della quarta, e ultima, edizione della Biennale teatro di Venezia da lui diretta
Sotto il segno della Censura si è conclusa a Venezia venerdì scorso la 48ª edizione della Biennale di Teatro, l’ultima delle quattro dirette dal regista Antonio Latella.
“Nascondi(no)”, questo il tema centrale di uno dei festival di teatro più importanti d’Europa che ha visto abitati quest’anno i palchi dell’Arsenale e del teatro Goldoni di sole compagnie italiane in prime nazionali. Obiettivo: far conoscere al pubblico internazionale il teatro contemporaneo della vicina penisola. Non nascondersi quindi, e portare allo scoperto anche tutte quelle attività legate al teatro che di solito stanno dietro le quinte: tecnici del suono, coreografi, pedagoghi. Lo dimostrano del resto simbolicamente i due Leoni alla carriera, quello d’oro a Franco Visioli, sound designer (ha lavorato tra gli altri con Peter Stein e Massimo Castri), e quello d’argento ad Alessio Maria Romano, pedagogo e coreografo (che il 22 ottobre sarà al Lac con ‘Bye Bye…’ presentato proprio a questa Biennale).
Parte dei lavori in programmazione erano a opera di registi e attori cresciuti anche nei College della Biennale, seguiti da Antonio Latella, che ha dato un’impronta fortemente didattica al suo mandato. Una scelta precisa la sua, che mira anche a scovare e far screscere i giovani talenti, credendo nelle loro possibilità, fidandosi del loro intuito e della loro capacità di ricerca. “Con dolcezza chiedo a tutti i direttori artistici di curarsi di loro”, dirà lo stesso Latella a chiusura del suo mandato.
Gli spettacoli proposti (27 per 9 giorni di programmazione) hanno confermato il fiuto di Latella, perché per la maggior parte dei casi hanno dato prova di ricerche originali e grande qualità. I registi avevano ricevuto indicazioni dal Direttore artistico circa il non censurarsi, fare insomma tutto quello che avrebbero sempre desiderato senza pensare alla programmazione futura o ai gusti del pubblico. Lo spettacolo che più coraggiosamente ha preso in parola le parole del direttore è stato Glory Wall di Leonardo Manzan, e infatti si è aggiudicato la Targa di miglior spettacolo da parte della giuria internazionale, ‘comprendendo che la censura è sempre una questione di potere. In questo caso il potere, o la sua mancanza, nel nostro teatro’ questa parte della motivazione.
Abbiamo incontrato il regista Antonio Latella per farci raccontare qualcosa di più, dal suo punto di vista, sulla situazione del teatro attuale e sul suo mandato in Biennale. «Questo quarto atto è nato il secondo anno del mio mandato come direttore artistico» spiega il regista. «Ho visto che il lavoro che stavo facendo stava portando tanti operatori stranieri. Erano molto curiosi del teatro italiano che non conoscevano minimamente, a parte i soliti nomi. Ho quindi pensato che era un dovere fare una biennale tutta italiana, che potesse mostrare ciò che accade nel nostro paese».
Cos’è la censura a teatro per Antonio Latella?
Probabilmente è quando si dice ai registi che lo spettacolo dev’essere venduto, circuitare, andare in determinati teatri. Il titolo o l’autore non vanno bene per il pubblico. Sono tutte affermazioni che a monte censurano l’artista, sa già che certe proposte non le deve fare.
È evidente poi che un direttore artistico, anche se pensa di non farlo, censura: deve programmare e fare scelte soggettive. Facendole si decide però quale artista presentare al pubblico e quale no.
Si è parlato molto di giovani, questa edizione. Sono i più colpiti dalla censura?
In questo paese i giovani entrano di diritto nelle istituzioni quando sono dei nomi affermati. Quindi quando sono sicuri, quando lo spazio dell’errore è limitato. Ma il giovane va sostenuto quando fa gli errori perché è lì che c’è la ricerca, la possibilità di crescita.
Cosa ci può raccontare della scena italiana contemporanea, come è lo stato attuale delle cose?
In questo quattro anni di direzione artistica ho capito che gli under 30 sono molto interessanti, molto più della mia generazione. Noi abbiamo ancora addosso un’idea novecentesca del teatro mentre l’under 30 si confronta con mezzi, linguaggi, possibilità altre. Io scommetto su di loro, hanno una preparazione culturale molto alta, anche se hanno meno mezzi.
Il teatro di oggi è molto autoriale, c’è l’urgenza di raccontare le storie. Ci sono modi diversi però di farlo, non solo dall’inizio alla fine. Io ti racconto la mia storia ma tu devi farti la tua. Questo può essere un nuovo modo di raccontare.
Cambiano i linguaggi, si può affermare che cambia anche l’urgenza e i temi di cui si parla?
Ho notato che i giovani oggi partono da storie private, quasi intime, accadimenti che loro conoscono molto bene. Poi li spostano e li fanno diventare fortemente classici perché riescono ad aprire. Quando rimangono sul piccolo io non vedo la possibilità del linguaggio che sarà domani. Ma quando il piccolo riesce a diventare un micro e un macrocosmo è molto interessante.
Si è parlato di censura anche rispetto al pubblico, qual è il ruolo di chi sta dall’altra parte del palcoscenico rispetto agli attori?
Come regista non mi interessa che il pubblico sia rilassato, intrattenuto. Deve essere attivo, lavorare. È stancante, ma importantissimo che il pubblico esca dalla sala discutendo magari animatamente, non dicendo semplicemente che lo spettacolo è stato ‘carino’.