Contro la società maschilista, il regista Stéphane Riethauser racconta la battaglia di sua nonna, sposa forzata. E la sua, omosessuale in un mondo machista
Era una fredda mattina di marzo, quando in un bar di Lugano avevo incontrato Stéphane Riethauser: una interessante chiacchierata sugli stereotipi di genere, su come sia difficile sopportarne il peso per chi non vi si riconosce, sulle battaglie di sua nonna Caroline, donna forte e autonoma, e quelle di Stéphane, omosessuale. E su ‘Madame’, il film che partendo dal rapporto tra nonna e nipote affronta questi temi e che pochi giorni dopo il nostro incontro sarebbe dovuto arrivare nelle sale ticinesi. Poi la pandemia, le misure sanitarie, la chiusura dei cinema: e ‘Madame’ arriva solo adesso, in programmazione all’Otello di Ascona, al LuxArtHouse di Massagno e ad Acquarossa.
Stéphane Riethauser, che cosa l’ha spinta a raccontare la storia sua e di sua nonna?
Ho iniziato a filmare mia nonna quando ha compiuto novant’anni, per non dimenticare le storie che mi raccontava, per conservare – a titolo privato – la sua memoria. Mi ha raccontato delle storie incredibili e ho iniziato a pensare alla possibilità di fare qualcosa sulla condizione delle donne all’epoca, con lei come protagonista. Era lei stessa a dirlo, scherzando: era una donna molto brillante.
C’erano delle scene simpatiche, ma non mi sembrava materiale per un film – e all’epoca non lavoravo ancora nell’audiovisivo. È stato solo dieci anni dopo la sua morte, quando ho ritrovato le cassette e, guardandole con la giusta distanza, mi sono reso conto quanto era interessante quel materiale. Volevo raccontare qualcosa sulla condizione femminile, perché il suo percorso mi sembrava emblematico di quello che una donna ha dovuto subire, le sofferenze cui si va incontro in un mondo dominato dagli uomini.
Una storia di determinazione, anche: è stata imprenditrice, la seconda donna a fare la patente nel Canton Ginevra.
Sì, all’inizio degli anni Trenta. A 18 anni ha osato divorziare: costretta, all’età di 15 anni, dal padre a un matrimonio forzato con un uomo che non amava, forzata ad avere rapporti sessuali con lui, violentata da suo marito – lo dice lei stessa nel film.
All’inizio non avevo nessuna intenzione di diventare coprotagonista del film: la mia intenzione era fare un ritratto oggettivo di mia nonna. Poi un amico – che è uno dei critici più severi – mi ha detto: “Stéphane, sì tua nonna è eccezionale ma dove è il tuo punto di vista? Che cosa vuoi dire parlandoci di lei? Qual è il tuo rapporto con lei, con la femminilità in generale? E, in quanto omosessuale, qual è il tuo rapporto con la mascolinità?”.
Ho quindi pensato di poter costruire un dialogo, di fare qualcosa che parlasse del rapporto tra uomini e donne utilizzando mia nonna, i membri della mia famiglia, e me stesso, come personaggi. Non per fare un film di famiglia, ma per tracciare a grandi linee le norme e i valori dell’essere uomini e dell’essere donne.
Un tema affrontato da più punti di vista.
Mi sono reso che io, al contrario di mia nonna, non ho dovuto combattere molto. Sono cresciuto in un contesto molto privilegiato, borghese, protetto: mi hanno incoraggiato a studiare, in quanto maschio non avevo bisogno di niente, abituato all’idea che le donne mi avrebbero servito.
Un contesto privilegiato, ma forse non per un omosessuale.
Mi ci è voluto del tempo, non solo per realizzare il mio essere omosessuale, ma anche proprio per comprendere che cosa significasse. Non avevo le parole giuste, non avevo esempi intorno a me. Era semplicemente una cosa orribile: nessuno voleva essere gay, in ogni caso non io.
Come mai i suoi genitori, pur avendo una madre così moderna, si sono dimostrati così conservatori?
Credo che siamo tutti il prodotto del nostro ambiente. Mia nonna ha dovuto battersi molto per affermare la propria esistenza in quanto donna ma ciononostante ha trasmesso dei valori conservatori, nel crescere i suoi figli, i suoi nipoti. Siamo cresciuto in una maniera “sessista”: ha divorziato due volte ma non ne parlava volentieri, li viveva come una sconfitta. L’omosessualità, e in generale la sessualità, restavano un tabù.
Anch’io ero parte del sistema di dominazione maschile: come omosessuale ne ero vittima, ma al contempo ho veicolato quei valori come me li ha insegnati mio padre. Che è un essere umano meraviglioso, una persona di gran cuore, sensibile, con talento per la musica, ma che si è costruito una corazza maschile, perché si è uomini se non si è donne, si è uomini se non si è omosessuali.
Il mio film cerca di raccontare la condizione femminile e la condizione omosessuale: entrambi soffrono per questo sistema patriarcale, con l’uomo (bianco) che domina su tutti. È la storia di due esseri umani, io e mia nonna, che hanno lottato semplicemente per essere se stessi.
Il sistema patriarcale opprime non solo donne e omosessuali, ma anche un ragazzo eterosessuale che si deve conformare a un modello in cui magari non si riconosce.
Sì, assolutamente. Mi sono resto conto che il sistema patriarcale è come una struttura molto rigida all’interno della quale ognuno deve recitare un ruolo. Gli uomini, soprattutto gli adolescenti, devono mostrare la loro mascolinità contro le donne, dominando anche sessualmente le donne. È dominando che dimostrano di non essere donne – o omosessuali, che sono come le donne, e infatti se guardiamo a come vengono chiamati gli omosessuali, vediamo che sono tutte parole che hanno a che fare con la femminilità, perché sono come le donne. Chi prova a uscire da questo schema viene rimesso a posto: dai genitori, dalla scuola, dalla società, dalle istituzioni.
Realizzando questo film, mi sono reso conto di quello che è accaduto nella mia famiglia, i valori ai quali si viene educati, le pressioni che si subiscono. Molto è cambiato, per fortuna, ma resta ancora molta violenza sia verso le donne, sia verso gli omosessuali. È uno schema che vedo ovunque, direi che è quasi universale: nel mondo occidentale è stato diffuso in buona parte dalla Chiesa che ha lo stesso sistema di dominazione – anche se poi è pieno di omosessuali, dentro la Chiesa.
Nel film vediamo un giovane Stéphane insultare, guardando la tv, la tennista Martina Navrátilová perché lesbica. E poi uno Stéphane adulto lottare insieme a lei per i diritti degli omosessuali: che impressione le ha fatto rivedersi?
Grazie a quelle immagini d’archivio, grazie al lavoro sulla memoria che ho fatto, ho cercato di comprendere che cosa mi era stato inculcato, quali parole mi avevano insegnato, qual era la mia visione del mondo.
Riguardando il mio passato ho capito quanto i bambini siano influenzati dal proprio ambiente e che, se allarghiamo la paletta di possibili comportamenti maschili e femminili, tutti ne possono guadagnare. Anche gli uomini etero che non hanno il diritto di essere sensibili, di essere teneri, di avere una sessualità anale che resta un tabù all’interno delle coppie etero.
Ha mai pensato a cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a “uscire” da questa struttura patriarcale?
Forse sarei diventato molto conservatore, molto rigido. Forse avrei sposato la figlia dei vicini di casa, come i miei genitori si auguravano, avrei ripreso l’azienda di mio padre, sarei diventato contabile o avvocato come mio zio… Forse sarei stato felice. O molto triste: quello di cui adesso mi rendo conto è che più mi sentivo male a livello privato e più diventavo intransigente a livello politico, più mi avvicinavo alla destra, a posizioni fasciste. Perché quando non ci si sente bene occorre trovare qualcuno contro cui scaricare la propria frustrazione. Mentre quando si sta bene, mi verrebbe da dire quando a casa si fa bene l’amore, non si va in giro a picchiare gli altri – e questo vale per tutti, eterosessuali e omosessuali. È una questione molto complessa, che ha a che fare con la nostra storia, ma credo che molti comportamenti misogini e omofobi siano il risultato di una frustrazione sessuale.
Poi ha capito di essere omosessuale.
E, abituato ai privilegi di un maschio bianco che può sentirsi in sicurezza in tutti i contesti sociali, improvvisamente mi sono reso conto che se cammino per la strada mano nella mano con un amico rischio di essere picchiato. Anche in Svizzera, anche a Berlino dove vivo e che è una città aperta e tollerante.
A chi è stato più difficile dire di essere omosessuale, a se stesso o agli altri?
È stato più difficile svelarlo a me stesso: è stato difficile capirlo, perché non ne avevo i mezzi. A 14-15 avevo iniziavo a capirlo, ma come racconto nel film subito negavo: “No, non sono così”. Perché l’essere umano ha una straordinaria capacità di mentire a se stesso.
Poi la natura dei miei sentimenti ha preso il sopravvento e non ho più potuto ignorarla: all’improvviso ho capito, mi sono messo in discussione, ho ripensato tutto il mio passato, tutta l’educazione che ho ricevuto. Possibile che nel mio ambiente non ci fossero omosessuali? L’unico esempio era Michel Serrault in ‘Il vizietto’, il personaggio ridicolo, divertente.
Una volta compreso tutto questo, è stato relativamente facile dirlo agli altri, ma è una questione di carattere: io devo condividere. Ma conosco molti omosessuali che hanno capito molto prima di me, ma continuano a tenerlo nascosto. Banchieri, politici, anche qui a Lugano: tengono nascosta la propria sessualità. E questo da noi: pensiamo a cosa accade in altri Paesi come l’Arabia Saudita.