Correva l’anno 1999: l’esperienza di B., nome (decisamente) noto alla redazione. Cronaca di uno scandalo italiano finito, tutto sommato, a tarallucci e vino.
«Eravamo tredicesimi e dovevano cantare in venticinque. Al massimo potevamo arrivare trentottesimi. È palese che se alla fine della gara ti ritrovi oltre il sessantesimo posto ti viene da pensare male». Quasi ventun anni fa, il giovane B. (nome noto alla redazione) era tra le migliaia di partecipanti all’Accademia della Canzone di Sanremo, quella che oggi si chiama Area Sanremo e non fa più parlare di sé perché i nuovi titolari son più capaci a far di conto. «Cantavo in duetto con l’amica Claudia una cosa tipo ‘Ti lascerò’, lei e lui che forse si amano, forse no, ma c’è la non remotissima possibilità che alla fine si lascino, conclusione che fa sempre una certa disillusione alla Marco Masini. Li chiamano “brani sanremesi”. E comunque a me Marco Masini piace».
Fino ai primi anni del nuovo millennio, l’Accademia della Canzone di Sanremo è stata un concorso nazionale strutturato in selezioni regionali che, se vinte, garantivano il diritto di frequentare uno stage di una settimana a Sanremo, periodo durante il quale «quelli del settore tenevano conferenze su come farcela e quelli che ce l’avevano fatta ti raccontavano come ce l’avevano fatta». Cosa ancor più importante, lo ‘stagista’ gareggiava con altri ‘stagisti’ sperando di entrare nei dodici nomi che di lì a qualche mese, in un confronto finale, si sarebbero contesi due posti all’Ariston. Due posti sul palco, non in platea. «L’anno prima ci aveva provato Tiziano Ferro, ai tempi di 111» (il suo peso in chilogrammi, che darà il titolo all’album del 2003, ndr).
Tutto molto bello. Tranne un particolare: «Lo stage doveva pagarselo per intero il partecipante». Il nostro interlocutore racconta di quotidiani malumori, dinamiche di selezione poco chiare e diplomi di partecipazione stracciati in faccia agli organizzatori alla fine dello stage. Il diploma di B., al contrario degli altri, rimase integro, appeso in casa sua per gli anni successivi. «Nel bagno», puntualizza.
La storia che racconta B. venne a galla lentamente, a partire dall’ottobre del 1999, quando la rivista Rockol rivelò che agli ‘stagisti’ veniva imposta la firma di un contratto d’esclusiva di dieci anni con gli organizzatori – «Dieci anni, che per un artista a volte sono tutta una vita di musica» – per prorompere poi, a metà giugno del 2003, in uno scandalo di più vaste dimensioni che investì in primis il Comune di Sanremo. Giusto il tempo di intercettare gli organizzatori dell’Accademia e i manager di alcuni dei giovani in gara, giusto il tempo di ricostruire accordi per garantire piazzamenti, possibilmente in quei dodici, ambitissimi posti che garantivano la vetrina di massima esposizione davanti al gotha dei talent scout, presunti o conclamati.
“Portavo sempre almeno una ventina di ragazzi veramente bravi, ma mai che ne salisse uno sul palco dell’Ariston. Allora chiesi al patron dell’Accademia della Canzone di Sanremo cosa dovessi fare per far vincere uno dei miei e lui mi risposte candidamente: ‘Un piccolo investimento’. Così ho pagato di tasca mia 50mila euro per due artisti in cui credevo. Uno (una, ndr) poi ha vinto il Festival nei Giovani, l’altro si è piazzato bene. Per fortuna tutto è finito”. Questo ricorda sulle pagine del Messaggero del 6 settembre 2003 il maestro di musica e manager discografico bresciano finito per breve tempo in carcere insieme all’allora assessore al Turismo e Spettacolo del Comune di Sanremo e al sopraccitato patron. “Era una strada senza via d’uscita che arricchiva sempre le solite persone”.
Le intercettazioni pubblicate nei giorni successivi da Repubblica, ricavate da due telecamere poste dalla Guardia di finanza negli uffici del patron, sono almeno divertenti. Lo scandalo porterà alle dimissioni del sindaco di Sanremo (“Una pagina tristissima” per l’allora ministro Scajola, ex sindaco di Imperia), ad avvisi di garanzia al capostruttura della tv di Stato e ad altri nomi noti, alcuni molto noti, salvati dalla Cassazione nel luglio 2006 in nome degli scandali italiani finiti ‘a tarallucci e vino’: “Il fatto non sussiste”.
Sulle pagine di XL, l’inserto di Repubblica di quegli anni, prima che il bubbone scoppiasse, qualcuno scriveva: “Ma se loro cercano il nuovo Battisti e io magari lo sono, non dovrebbero essere loro a investire su di me?». Beata innocenza, in tempi in cui l’autoproduzione, l’autopromozione, l’autotutto erano per la musica concetti lontani da venire. «Lo stage – continua B. – costava complessivamente 100mila lire per l’iscrizione alla selezione regionale, 100mila per accedere allo stage e 100mila per ogni accompagnatore che ti fossi portato dentro le mura del Casinò. Poi servivano 80mila lire a notte per l’albergo, e i soldi per pranzi, cene, viaggio». Moltiplicando l’investimento settimanale per un migliaio di persone spalmate su due mesi, aggiungendo le selezioni successive fino alla finale, c’è qualcuno che non avrebbe voluto gestire un hotel a Sanremo nell’inverno del 1999?
«Che i 12 finalisti fossero già decisi – continua B. – era cosa nota. Io, però, mi aspettavo di essere eliminato con una certa classe. Si può passare per le grinfie della Banda Bassotti o per quelle di Arsenio Lupin. Io confidavo in Arsenio». E invece «c’era questo ragazzetto seduto al pc che spostava su e giù i partecipanti in base a criteri suoi. E le partecipanti in base a criteri prettamente maschili». Nemmeno il regolamento era un regolamento: «C’era un limite d’età di 26 anni, ma in gara ascoltammo pure un 50enne che si diceva essere lì perché marito di nota pornostar fiorentina».
E che tutto non fosse mai stato trasparente sin dall’inizio, sostiene B., era noto sin dal Gran galà di Gallarate dedicato ai vincitori delle selezioni lombarde, il cui volantino «portava già il nome di una band che ancora doveva vincere l’ultima selezione lombarda. Posso dirlo con certezza. Erano amici miei. Sarebbero finiti nei dodici, uno dei giurati del Casinò era anche il loro manager». Da allora, un polverone così non si è più alzato, anche se il settore pullula ancora di sedicenti manager. «Quelli che in cambio di soldi promettono di trasformare rane in usignoli ma riescono meglio nel trasformare usignoli in rane, facendo firmare contratti eterni durante i quali, se ti va bene, devi chiedere il permesso anche per cantare sotto la doccia».
B. oggi vive sereno nel Luganese, si occupa ancora di musica, anche se in qualità di giornalista. Ricorda quella sera del 1999 ridendoci sopra: «Mara Maionchi, messa con le spalle al muro dai concorrenti infuriati in uno degli storici bar di Sanremo, dimostrò la propria innocenza di giurata mostrando le schede con i voti. A noi aveva dato 7,5 su 10. Insomma: magari l’X-Factor non ce l’avevamo, ma solo per il fatto di esserci battuti contro le leggi della matematica, mi sento di dire che ne uscimmo a testa alta».
Il giornalista non ha rancori ed è uno strenuo sostenitore della qualità artistica di Sanremo. Di Festival, dal 1999, non se n’è più perso uno. Nemmeno prima di allora, e nemmeno quest’anno se lo perderà. «Non so da cosa dipenda, me lo sono chiesto spesso. Forse è un rapporto malato, forse credi di amare l’intera donna e invece ti sei invaghito di una fossetta. Forse è la Sindrome di Stoccolma».
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Venerdì 31 gennaio, su Ticino7, leggi ‘Sanremo noir, la macchina infernale’