In barba a scetticismi e polemiche, e contro lo spauracchio rap (decimo il buon Rancore), la versione 'family' di Amadeus fa felici tutti. Anche noi.
Ecco, la musica è finita, i dipendenti Rai se ne vanno, che splendida serata, per dirla alla Vanoni. È l’alba del Festival vinto da Diodato con ‘Fai rumore’ e nell’albergo occupato in prevalenza dalla tv di Stato, sin dalla prima colazione, sono tutti lì a ripetere ossessivamente “sessanta”. Inteso come “per cento” – sopra il settanta nella parte finale dell’ultima puntata – che è il più alto share dal 2002 (Claudio Baglioni? E chi se lo ricorda?).
Al termine del tradizionale incontro della domenica mattina, la sala stampa proprompe in un lungo applauso, facendo ‘danni’: «Ho cinquantasette anni, ci metto un attimo a commuovermi», dice Amadeus. Che si commuove. Ha vinto la sua idea di Festival familiare, pop e popolare, condotto con l’entusiasmo di chi non attendeva altro e con una cortesia che sa di antico. Una visione pop, la sua, per la quale la vera stella della settimana non è stato Tiziano Ferro, bensì alcune icone degli anni dei paninari così cari al presentatore. L’intesa e la scelta delle canzoni (buone come solo di rado accade) ha fatto entrare nelle casse della Rai trentasette milioni di euro (Claudio Baglioni? Mai sentito nominare).
Su Sanremo ci siamo andati pesante o volato leggero, chiedendoci se il dj al posto del musicista, ovvero Amadeus al posto di Baglioni, sarebbe stato in grado di ripetere il miracolo (due anni di record). Così è stato. «È la mattinata più difficile di tutte. Sono l’uomo più felice del mondo. Ho realizzato un sogno, tutto quello che è accaduto, nel bene e nel male, era quello che desideravo fare sin da agosto. Il numero settanta m’imponeva qualcosa di grande». Amadeus sente di aver lavorato «con sincerità, portando quel che pensavo potesse essere giusto. Ho sempre detto che mi sarei assunto tutte le mie responsabilità se fosse andato male». Agli inizi lo avevano chiamato «‘Il presentatore della porta accanto’ e io – aggiunge – non vedo l’ora di tornare alla quotidianità dei ‘Soliti Ignoti’ da domani».
Un solo appunto per questo Festival al femminile, e un richiamo a quello assai più talentuoso che fu di Virginia Raffaele e tornato quest’anno nelle braccia della più rassicurante bellezza fine a se stessa, toccando vette di vuoto cosmico con Georgina Rodriguez, la fidanzata di Cristiano Ronaldo. Perché Gianna Fratta è la moglie di Piero Pelù, ma prima la si conosce per essere una delle poche donne a dirigere le orchestre sinfoniche più importanti del mondo. Chi ha preteso, dunque, di conoscere il compenso di Rula Jebreal, al fianco di Amadeus di martedì, giornalista italo-palestinese e donna pensante con la 'colpa' di essere molto bella (esistono donne intelligenti molto belle così come le magre non sono tutte tristi, di certo lo penserà anche Fabio Concato) avrebbe dovuto chiedere quanti euro al minuto ha ricevuto la fidanzata di Cr7 per storpiare i cognomi (“Masini” diventato ‘Masani’) e per fare movimenti insieme a un ballerino («È la prima volta che ballo!»).
Registrando il ritorno sul palco dell’Ariston di Sabrina Salerno in nome del kitsch (il duetto ‘Siamo donne’ si tenne proprio lì nel 1991, in un generale scosciamento non proprio da orgoglio femminista), celebriamo la femminilità dai sedici ai settantaquattro anni:, e cioè dalla giovane Tecla, seconda soltanto a un cognome più importante (Gassmann, Leo) fino a Rita Pavone, un po’ penalizzata dal Minghi che ormai dylaniano, nella serata dei duetti, in ‘1950’ ha abolito le pause dai suoi testi. Fantastica la Zia Rita da sola in ‘Niente (Resilienza 74)’ scritta dal figlio George. Il ritorno, le standing ovation plurime, la voce oltre le leggi della normale usura, sono uno dei momenti indimenticabili di questo Settantesimo.
In quell’arco di età anagrafiche non reali s’inserisce Tosca, sesta con brano d’altri tempi, Premio Giancarlo Bigazzi. Vincitrice nella serata dei duetti a illuminare lo straripante patrimonio della canzone italiana che così bene, di giovedì, ha retto l’integrazione con i nuovi suoni, la sua ‘Piazza Grande’ in coppia con la spagnola Silvia Perez Cruz è stato un Premio Tenco in contemporanea.
Partiamo dal buono. Fiorello, per il quale la Rai si sarebbe potuta risparmiare Benigni; Gabbani, re del buonumore; Achille Lauro, re della provocazione dal denudamento francescano in avanti. Tra i Pinguini e Piero Pelù, l’unica esplosione nucleare è stato l’ex Litfiba al quale il palco, anzi, tutto il teatro stava stretto (‘Gigante’ è titolo e pure aggettivo). Buono è Tiziano Ferro per il compenso girato in beneficenza; buono è Amadeus che si scusa per l’ora tarda («Volevo fare come mia nonna quando portavo gli amici a casa, e cucinava due torte, mentre ne bastava una»); buono il popolo Rai, che rende quello che nei meccanismi è «uno spettacolo povero, quasi da sussidiario» (cit. Eddy Anselmi), ma che diventa il miglior prodotto tv possibile in cui la musica s’impone ancora di essere dal vivo. Sono le maestranze della tv di Stato «dai guadagni sobri – spiega il megadirettore Stefano Coletta di domenica mattina – che mettono tutta la propria passione in un prodotto così fondamentale per l’azienda».
Il brutto. La spocchia di Junior Cally, che qualcuno ha preferito far esibire con la propria faccia, ma che è molto più simpatico con la maschera. Questo non impedisce di dire che ‘No, grazie’ è una canna (la canzone va nel ‘buono’). Sta nel brutto anche una regia televisiva che ci priva più volte delle inquadrature d’insieme (il finale di Gualazzi, sul quale si perde l’ensemble di ottoni che lo circonda). L’abuso di movimento e di ravvicinato (serve la Xamamina) paiono scelte visive di chi non ha la minima idea di cosa sia un concerto dal vivo.
C’è del buono e del meno buono nelle canzoni. Il nuovo che avanza è Elodie, il nuovo che non si sposta da dove sta è Levante (si presenta alla finale con look alla Nina Zilli, diventando esattamente Nina Zilli); il nuovo che indietreggia è il nulla sentimentale di Riki, il vorrei ma non posso materno di Giordana Angi (brava, però, nella ‘Nevicata del ‘56’ con Solis String Quartet) ed Enrico Nigiotti che ha sbagliato canzone. Quanto a Elettra Lamborghini, penultima come Vasco (fate le vostre considerazioni), del cacofonico “Restòscompàre” non ci libereremo prima dell’autunno.
E siamo al cretino: lo squallido teatrino Morgan-Bugo seguito all’eliminazione di venerdì, degno del salotto di Barbara D’Urso. Volano, di sabato, stracci incrociati tra il Roof e il Palafiori in una commedia tragica degna del miglior Claudio Villa, nella quale appare evidente – tra accuse di mobbing professionale da parte del primo e inviti a un trattamento sanitario obbligatorio da parte del discografico del secondo – la voglia del Castoldi di un après moi le déluge, o di un più italiano muoia Morgan e tutti i Filistei (ma vale anche Sansone e tutti i Bughi). A rimetterci, ‘Sincero’ (quale altro titolo), uno dei brani più belli ascoltati fino a quando è stato possibile.
«Il rap serve poco per farlo. È un modo di arrangiarsi quando non hai mezzi. Per questo è un linguaggio che può parlare chiunque. L’Italia è una cultura forte, difficile aprire un varco a Sanremo. C’è una parte del pubblico che accoglie i cambiamenti e un’altra che li accoglie con più difficoltà, ma fa parte del processo per il quale un contenuto può cambiare il contenitore». L’edizione dello spauracchio rap l’ha riassunta così in settimana Rancore, e guardando alla classifica, il rap è davvero «ancora una nicchia di massa”, come pensa il critico Marco Mangiarotti.
Molto rumore per nulla, verrebbe da dire. A proposito di rumore: e il vincitore, vi chiederete? Lo si applaudiva prima che cantasse. Lasciando da parte le pressioni – «Senti, per il Premio Mia Martini la sala sarebbe orientata verso Tosca...». «Non ti preoccupare carissima, l’avrei votata comunque» – di Diodato in ‘Fai rumore’, impeccabile, al limite della freddezza, riusciamo a vederne la bravura e non la grandezza. Non c’entra la giacca da prestigiatore, ma una canzone alla Mengoni che non aggiunge niente di più alla storia. Ma ha vinto il Premio della Critica («Carissima, la sala sarà stata orientata, ma s’è orientata male») e il ‘Lucio Dalla’, e quindi cos’altro dire. È il bello del pensiero libero, che magari non sempre, ma fa rumore ed è bene sia così.