La semiologa Valentina Pisanty analizza come la definizione di antisemitismo sia diventata strumento di censura e legittimazione politica
L’antisemitismo è presente, in Europa come in altre parti del mondo, con discriminazioni, atti di vandalismo e aggressioni che colpiscono non solo le persone ebree, ma anche la società nel suo complesso minacciando i valori democratici e i principi della convivenza civile. È quindi essenziale, come individui e come società, affrontare l’antisemitismo e il primo passo è ragionare su questo concetto e sulle parole che usiamo per descriverlo e combatterlo. A questo primo passo è dedicato il volume di Valentina Pisanty, semiologa dell’Università di Bergamo ed esperta di retorica del razzismo, ‘Antisemita, una parola in ostaggio’ appena pubblicato da Bompiani.
Questo saggio prosegue il discorso iniziato nel precedente ‘I guardiani della memoria’ (Bompiani 2020) nel quale Pisanty decostruiva la retorica della memoria dell’Olocausto, denunciandone il fallimento nel contrastare razzismo e intolleranza (come se davvero bastasse il “non dimenticare” per arrivare al “mai più”) anche a causa degli usi strumentali di quella memoria. Un ragionamento simile si può fare per il termine “antisemita”, parola intorno alla quale è in corso una battaglia semantica e politica.
È normale, o quantomeno è usuale, che in un conflitto ognuna delle parti in causa mobiliti innanzitutto le proprie risorse retoriche per giustificarsi e per costruire una narrazione il più favorevole possibile. Tuttavia quando questa mobilitazione prevede di prendere il controllo della lingua stessa con mezzi ricattatori o addirittura coercitivi, allora dobbiamo preoccuparci perché, scrive Pisanty nell’introduzione, “il principio della libertà di parola è gravemente compromesso”. La lingua, infatti, non è una indifferente descrizione della realtà, ma funziona come principio di classificazione del mondo, costruendo somiglianze e differenze tra fenomeni: la sua evoluzione, e in particolare i cambiamenti di significato delle parole, non dovrebbero quindi essere imposti da autorità o gruppi di pressione ma lasciati all’uso comune e al dibattito pubblico. Come peraltro avvenuto anche con “antisemita” fino a una trentina di anni fa.
La parola “antisemita” fa la sua comparsa in tempi relativamente recenti e con un significato neutro se non addirittura positivo: nella seconda metà dell’Ottocento le persone che, dopo l’unificazione tedesca del 1871, si opponevano al riconoscimento dei diritti civili agli ebrei si diedero questo nome, divenuto popolare con la Lega antisemita di Wilhelm Marr.
Il termine si diffuse rapidamente anche in altri Paesi europei, subendo una prima estensione di significato, includendo anche le violenze di massa contro gli ebrei seguite in Russia all’assassinio dello zar Alessandro II (è utile ricordare che i famigerati ‘Protocolli dei Savi di Sion’ sono un falso realizzato dalla polizia segreta zarista). “Antisemita” iniziò così a descrivere non solo l’opposizione politica all’emancipazione delle persone ebree, ma anche le violenze fisiche contro le comunità ebraiche. I due fenomeni sono molto diversi, così come molto diverse erano le condizioni di vita delle persone ebree in Europa occidentale e nei territori dell’Impero russo, ma certamente non mancano i punti di contatto, a partire dalla presenza degli antichi pregiudizi religiosi a quelle che oggi chiameremmo “teorie del complotto” su piani segreti di dominio mondiale.
Meno convincente il passo successivo che trasforma l’antisemitismo in quella che Pisanty a pagina 35 definisce “categoria dello spirito sganciata dalle contingenze della storia”: l’ostilità verso gli ebrei non è più un fenomeno storico e contingente, ma una forza eterna e immutabile protagonista di uno scontro metastorico tra il bene e il male. Un passaggio problematico in primo luogo perché – torniamo qui all’idea del linguaggio come “filtro” per somiglianze e differenze – oscura le specificità storiche e sociali delle diverse forme di ostilità antiebraica (ha senso accomunare Hitler ad Amalek, capo della tribù che attaccò il popolo d’Israele durante la fuga dall’Egitto?). E perché questa figura dell’Eterno antisemita di fatto riprende, rovesciandola, la figura dell’Eterno ebreo, accettando implicitamente la logica alla base di ogni discriminazione: trasformare l’altro in uno stereotipo immutabile.
Questa riduzione allo stereotipo è alla base della definizione di antisemitismo che Pisanty adotta, riprendendo la proposta del filosofo sociale Brian Klug: ostilità contro gli ebrei in quanto ‘Ebrei’, ovvero in quanto percepiti come esemplari di uno stereotipo che non ha corrispettivi nella realtà.
La questione, fino a questo punto, sembra riguardare più che altro storici e filosofi. Anche perché dopo l’Olocausto la parola “antisemita” rimanda a crimini troppo atroci per essere rivendicata pubblicamente: i pregiudizi antiebraici continuano a circolare, ma anche chi li pratica e sostiene rifiuta questa definizione.
Le cose cambiano con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda: la lotta all’antisemitismo sostituisce quella al comunismo come fonte di legittimazione politica se non come base per costruire l’identità dei Paesi occidentali. È il periodo dell’istituzionalizzazione della memoria dell’Olocausto, alla quale è appunto dedicato ‘I guardiani della memoria’, ma soprattutto è il momento in cui la parola “antisemita” subisce un altro slittamento di significato, legato agli interessi della destra israeliana. Ecco che arriva quello che Pisanty definisce “nuovo antisemitismo” e che non include solo l’ostilità contro gli ebrei in quanto ‘Ebrei’, ma anche l’ostilità contro Israele, di fatto sovrapponendosi all’antisionismo. Ed è indubbio che alcune manifestazioni di antisionismo sono legate all’antisemitismo per così dire classico, ad esempio perché attingono al purtroppo ampio repertorio della propaganda contro gli ebrei spesso iniziando dai già citati Protocolli di Sion. Tuttavia non tutti questi attacchi sono riconducibili all’antisemitismo, ma possono avere motivi religiosi (è il caso di alcuni ebrei ultraortodossi, ai quali Pisanty accenna) o politici, ad esempio non riconoscendo il sionismo etno-nazionalista del Likud, il partito dell’attuale primo ministro Netanyahu.
Pisanty analizza in dettaglio la definizione di antisemitismo della International Holocaust Remembrance Alliance, una delle massime autorità per quanto riguarda la Memoria della Shoah. Questa definizione era originariamente nata per uniformare le rilevazioni di episodi di antisemitismo, non per accusare le persone di antisemitismo come invece accade. Il suo ideatore, Kenneth S. Stern, ha spiegato che si trattava di uno strumento analitico, non normativo, e che non potendo leggere nella mente delle persone include anche quelli che potremmo definire “indizi” o “sospetti”, come i paragoni tra le azioni dello Stato israeliano e quelle della Germania nazista o il cosiddetto doppio standard nel valutare Israele rispetto ad altri Paesi.
Il “nuovo antisemitismo” è così diventato uno strumento di censura e Pisanty non esita a parlare di “caccia alle streghe”, ricostruendo nell’ottavo capitolo come l’anatema di antisemitismo sia stato pretestuosamente sfruttato per delegittimare il leader laburista britannico Jeremy Corbyn.
Il problema di questo slittamento semantico non è solo la censura e la riduzione della libertà di espressione, che vediamo ad esempio nelle università americane, ma anche e soprattutto il rischio, apparentemente paradossale, di rendere meno visibile l’antisemitismo classico. Gli stereotipi tradizionali dell’antisemitismo vengono minimizzati o trascurati perché bisogna concentrarsi sulle azioni contro Israele. Uno spostamento di attenzione che ha un preciso orientamento politico: sguardo critico verso la sinistra antagonista e un occhio di riguardo per l’estrema destra anche quando i suoi esponenti sono sorpresi a fare discorsi dichiaratamente antisemiti o riprendono temi cari alla propaganda antiebraica, come la retorica contro George Soros. Pisanty parla esplicitamente di un accordo tacito tra il governo israeliano e i leader delle destre nazionaliste e populiste mondiali: supporto incondizionato alle politiche israeliane e condanna pubblica dei nemici di Israele in cambio di legittimità politica e dell’immunità da ogni accusa di antisemitismo e razzismo.
Una accusa forte, e che può certamente essere criticata, ma che Pisanty sostiene riportando numerosi esempi. ‘Antisemita, una parola in ostaggio’ non è infatti il semplice sfogo di chi vuole criticare Israele senza essere automaticamente accusato di antisemitismo: è al contrario una lucida e documentata analisi di come una parola utile e importante possa perdere il suo significato originario con esiti preoccupanti. Perché divenuta ostaggio della destra israeliana e piegata ai suoi interessi, la parola “antisemita” rischia di indebolire la lotta all’antisemitismo reale.