Nel recente e sofferto ‘Il suicidio di Israele’, scritto mentre la vendetta “senza limiti” dello Stato ebraico si abbatte sulla popolazione civile di Gaza, la storica Anna Foa, docente alla Sapienza di Roma, autrice fra l’altro di studi su cultura e vicende delle comunità israelite in Europa, ci accompagna con sobrio equilibrio nella tragica vicenda che anticipa, caratterizza e segue il barbarico attacco terroristico del 7 ottobre 2023 a opera di Hamas (il maggior numero di civili ebrei uccisi in un solo giorno dalla fine della Seconda guerra mondiale), seguito da una strage di palestinesi senza precedenti, tanto da spingere papa Francesco a chiedere se non si sia ormai superato il limite per cui si giustifica l’accusa di genocidio. “Suicidio”, per tornare al saggio di Anna Foa, non tanto di una nazione che dispone di mezzi militari (compresa l’atomica) e di alleanze sufficienti a garantirne la sopravvivenza; ma piuttosto la fine di una certa idea di Israele, come unica democrazia del Medio Oriente e, per l’autrice, di un Paese ancora in grado di generare, seppur fra molte difficoltà, un ebraismo fecondo di progresso culturale, di tolleranza, di equità e quindi in prospettiva di possibile convivenza con gli arabi palestinesi.
Anna Foa “ebrea italiana indipendente – la definisce chi la conosce bene – che ha sempre guardato a una identità universale dell’ebraismo, rifiutando un’idea etnica dello stesso; e che considera il ricordo della Shoah una memoria che oggi deve servire a prevenire altri genocidi e crimini contro l’umanità”. Questo spiega anche il suo impegno per l’Associazione Gariwo, che affida la difesa dei diritti umani al ricordo dei “Giusti” di ieri e di tutte le guerre e le repressioni di oggi. La docente della Sapienza ci consegna dunque un centinaio di pagine, sintesi di invidiabile chiarezza, un rapido percorso senza inciampi e comunque chiarificatore, utile a sciogliere la complessità dei tanti intrecci del conflitto arabo-israeliano, fino a queste sue ultime degenerazioni. E lo fa con semplicità tagliente.
Fra i diversi temi affrontati dall’autrice, vi è anche quello attualissimo dell’uso del termine “antisemitismo”. Anzi, del suo abuso strumentale, soprattutto da parte del governo Netanyahu e dei suoi indispensabili alleati, Ben Gvir e Berzaled Smotrich, leader di due partiti ‘messianici’ che si battono per l’assimilazione di tutti i territori della Palestina storica, anche a costo di forme di massiccia pulizia etnica, armando e incoraggiando i coloni, spesso aggressivi, che formano la base del loro elettorato. Anna Foa ritiene importante, soprattutto in questo periodo storico, ricorrere a una chiara definizione dell’antisemitismo “che consenta di mettere dei paletti e di distinguere nettamente ciò che lo è, da ciò che non lo è”. E questo, suggerisce, partendo dalla definizione più chiara e aggiornata del fenomeno, contenuta nella ‘Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, 2021’: e cioè “la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei”. Definizione non equivocabile. Che tuttavia viene usata con disinvoltura anche come arma impropria e contundente nel dibattito politico sulla tragedia in corso. Quindi, a proposito di quei “paletti necessari a distinguere”, Anna Foa si chiede con efficace semplicità: “Come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine antisemitismo a ogni condanna della guerra di Gaza? Paragonare il clima di oggi a quello che in Italia accompagnò le leggi razziali del 1938, come è stato fatto, mi sembra una vera e propria forzatura, che fa eco alle affermazioni con cui Netanyahu accusa ogni opposizione alla sua politica di essere antisemita, all’interno come all’esterno. Non è che a forza di estendere a dismisura la nozione di antisemitismo finiremo per perderne la natura e la specificità? Come fare, ad esempio, quando gli studenti, anche adottando parole d’ordine che in qualche caso possiamo definire antisemite, si battono contro dei veri e propri massacri? È un antisemitismo con cui si può provare a discutere, a parlare, a spiegare”.
Questo, in sostanza, e senza dover citare altri passaggi assai pertinenti dell’autrice, perché la protesta nasce essenzialmente da un senso di ingiustizia; spesso chi vi partecipa non conosce la storia del conflitto, la sua genesi e le sue tragedie, le precise ragioni dell’uno e dell’altro, vede solo atti intollerabili e assimilabili al concetto di “crimini contro l’umanità”. Inoltre, aggiungerei, si tratta di generazioni spogliate del senso di colpa che possono ancora avere padri e nonni consapevoli o memori delle colpe e delle complicità e dei silenzi occidentali di fronte al massacro delle comunità israelite europee. Non a caso, Anna Foa denuncia anche il ricorso improprio alla Shoah. E scrive: “Possiamo discutere se l’uso che Ben Gurion, nel 1961, ha fatto del processo Eichmann elevando la memoria della Shoah a pilastro identitario dello Stato sia stato o meno strumentale, ma nulla lo rende uguale al cinismo con cui oggi il governo israeliano la usa contro i palestinesi, macchiando questa memoria indegnamente e speriamo non indelebilmente. Lo stesso si può dire del termine antisemitismo, ormai uguagliato a qualsiasi critica al governo israeliano. Un uso che fa crescere l’antisemitismo, gli offre occasioni e giustificazioni, lo fa riemergere dai tabù della storia, gli rende la parola”. Ecco come può diventare dannosa la banalizzazione di un termine che fu invece fondamentale nell’elaborazione della nostra pur faticosa vita democratica.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’