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Economia, se il vecchio scricchiola e il nuovo arranca

Tra valli della moda un po' démodé e scossoni finanziari, il ‘sistema Ticino’ deve ripensarsi. Ma come? Lo chiediamo all’economista Spartaco Greppi

In sintesi:
  • ‘Non si è colta l’occasione per riorientare la politica economica e industriale del cantone’
  • Spunti per un futuro più libero dalle scorciatoie fiscali e dallo sviluppo insostenibile
Spartaco Greppi
(HES-SO)
22 aprile 2023
|

C’è quella frase di John Fitzgerald Kennedy che citano un po’ tutti, quando arrivano i nuvoloni: “Scritta in cinese la parola crisi è composta da due caratteri. Uno rappresenta il pericolo, l’altro rappresenta l’opportunità”. Filologicamente discutibile, il motto kennediano risulta nondimeno utile a interpretare certi scricchiolii in alcuni settori dell’economia ticinese – dalla finanza alla moda – per capire in quale direzione andare, specie ora che una nuova legislatura si appresta a cominciare. Ci ragioniamo con Spartaco Greppi, economista presso il Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale della Supsi.

Partiamo da un bilancio degli ultimi anni. Cos’ha funzionato nell’economia ticinese e cosa no?

Temo che nel reagire a diverse crisi – soprattutto quella finanziaria del 2007-8, ma partendo ancora prima per poi arrivare a quelle più recenti – non si sia colta l’occasione per riorientare la politica economica e industriale del cantone. Un problema che in un certo senso è sollevato anche dal recente lavoro di Aiti (Associazione delle industrie ticinesi, ndr), che tematizza proprio le sfide del fare impresa in una realtà tutto sommato periferica come la nostra. A mio avviso si ripropone l’urgenza di ripensare più organicamente la nostra economia sulla base di un modello antropogenetico, di “produzione dell’uomo da parte dell’uomo”, tale cioè da puntare su settori socialmente innovativi e portanti quali l’istruzione, la sanità, la ricerca e sviluppo, la cultura, l’ambiente.

Qualcosa però si è fatto, o no?

Certo, non bisogna sottovalutare quanto conseguito: penso al polo biomedico o alla nascita di alcune imprese altamente innovative e socialmente responsabili. Anche in questo senso, l’auspicio è che in futuro il sostegno pubblico a certi successi diventi sempre più strutturato e organico. Il rilancio delle politiche industriali in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti dovrebbe ispirare la politica economica anche in una realtà come la nostra.

In passato si è puntato molto sulla fiscalità: grandi gruppi come Kering – il colosso del lusso che gestisce marchi quali Armani e Gucci – sono arrivati qui a fare ‘profit shifting’, hanno cioè spostato in Ticino la registrazione dei profitti per beneficiare di tasse inferiori rispetto a quelle italiane e francesi. Le pressioni legali dei Paesi d’origine ne hanno poi imposto la ritirata, con pesanti conseguenze per le casse pubbliche e un mucchio di capannoni vuoti disseminati sul nostro territorio. Che lezione dovremmo trarne?

Si tratta di uno dei molti casi infelici che ci suggeriscono di cambiare radicalmente il nostro approccio alle politiche fiscali, smettendola di puntare sul ‘gettito facile’ e a breve termine che però crea realtà lavorative effimere e avulse dal territorio. Naturalmente una fiscalità che incoraggi uno sviluppo più sostenibile richiede un diverso coordinamento a livello federale: il margine di manovra ticinese rimane ridotto finché la concorrenza intercantonale incentiva una corsa al ribasso. Occorrerebbe anzitutto legare certe agevolazioni a dei criteri che incoraggino la nascita e l’insediamento di attività capaci di contribuire allo sviluppo a medio e lungo termine, qualcosa che finora è mancato. La politica industriale non può essere direttamente correlata alla politica fiscale e quest’ultima non può essere disgiunta da un progetto di società.

La proposta di legare gli incentivi a criteri di questo tipo – insieme alla rivendicazione presso l’amministrazione federale e le ex regie di più impieghi da spostare in Ticino – costituisce l’asse portante del programma di ‘Avanti con Ticino & Lavoro’, movimento nato da una costola del Partito socialista dopo la fuoriuscita di Amalia Mirante. Vi trova spunti interessanti?

Alcune promesse – come i “diecimila posti di lavoro”, che ricordano il milione d’impieghi promesso a suo tempo da Silvio Berlusconi – mi paiono elettoralistiche e un po’ fumose. Anche perché in Ticino ci sono già molti posti di lavoro in più rispetto ai residenti, e in certi casi si tratta anche di posti di eccellenza ed elevato valore aggiunto. È però vero che questi non offrono sempre salari adeguati ai residenti, per i quali basterebbe migliorare le condizioni salariali senza creare migliaia di impieghi in più. Non si tratta di attrarre lavoro dall’esterno con chissà quale missione salvifica, ma la leva fiscale e un sistema lungimirante di incentivi pubblici, in ambito formativo e energetico, potrebbero sicuramente servire.

Così facendo, però, si rischia di tirarsi addosso le ire di chi specula proprio sulla manodopera a basso costo. Perfino eminenti leghisti hanno provato a inventarsi sindacati fasulli per aggirare il salario minimo e sfruttare meglio i tanto odiati lavoratori italiani: non la dice lunga sulla reale disponibilità al cambiamento di questa classe politica e degli interessi che rappresenta?

Occorre avere il coraggio di rinunciare a determinate produzioni che puntano solo su retribuzioni al di sotto della soglia di povertà, speculando sul frontalierato. Solo così potremo rimetterci al passo con quanto intrapreso ultimamente in molte regioni e Paesi, dagli Stati Uniti alla Germania, passando per la Norvegia. Sarebbe interessante pensare anche alla creazione di fondi pubblici d’investimento finalizzati a incentivare la transizione verso realtà industriali più sostenibili, come ha fatto la Norvegia.

Ma la Norvegia ha il petrolio: i soldi per la transizione li ha presi da lì. In Svizzera, dove troveremo i fondi per un intervento adeguato?

Anche in questo caso si tratta di ragionare su scala nazionale, per riorientare una serie di risorse anche tramite una tassazione che contrasti le crescenti disuguaglianze, pensando pure alla riallocazione di una parte degli investimenti pubblici già in essere. Come si fece dopo la Seconda guerra mondiale per dotare di fondi l’Avs, sarebbe possibile individuare meccanismi di prelievo progressivo finalizzato a investimenti innovativi di lungo periodo. D’altronde la pandemia – con le indennità per la perdita di guadagno degli indipendenti – e il salvataggio di Credit Suisse mostrano che quando si vuole le risorse si trovano, le leve giuste anche. Non avremo il petrolio, ma abbiamo una serie di risorse immateriali e ambientali con pochi paragoni a livello mondiale.

A livello federale e cantonale, tuttavia, le proposte che lei elenca si direbbero lontane anni luce dalle priorità degli elettori, che danno la precedenza al pareggio di bilancio e mostrano un rimontante scetticismo in merito alle misure a difesa dell’ambiente e dei diritti del lavoro. Perché non fa presa un’agenda più progressista?

Non sta a me fare considerazioni di natura elettorale. Noto però che si constata una crescente sensibilità per temi quali la qualità della vita e del lavoro. È un cambiamento culturale evidenziato – altrove come in Svizzera – da fenomeni quali le grandi dimissioni: dal lavoro, dai partiti come pure dalle urne. L’importante è ‘soggettivare’ certi temi: far capire alle persone che interventi a favore dell’ambiente, dello Stato sociale, di un’economia che rimetta al centro la persona vanno a loro diretto beneficio, almeno nel medio e lungo termine; il tutto assicurando le giuste coperture per la fase di transizione. Il problema è che dall’altra parte si risponde impugnando spauracchi e promesse miracolose, spesso più convincenti nell’immediato, anche a costo di ben peggiori conseguenze nel lungo periodo.

Prima ha parlato di occasioni perse. Colpisce notare che la stessa denuncia, mutatis mutandis, viene da destra: ad esempio il deputato Udc Sergio Morisoli, già collaboratore di Marina Masoni, sostiene che sfortunatamente le proposte liberiste avanzate trent’anni fa nel ‘Libro bianco’ (vedi ‘laRegione’ del 3 e del 22 marzo) non furono seguite. Avete visto due film diversi?

Molto diversi, direi: mi pare che gli sgravi fiscali, le privatizzazioni e altre scelte politico-industriali – a partire da certe scommesse sulla dimensione finanziaria e su realtà alquanto aleatorie quali la moda e il lusso – siano stati realizzati eccome, con pesanti conseguenze sulle capacità di manovra dello Stato. Forse la diluizione nel tempo e la sconfitta di alcune manovre puntuali può far pensare che non vi sia stata una vera accelerazione in senso liberista, ma questo mi pare davvero un errore di percezione.

Intanto, il caso del Credit Suisse fa temere un ulteriore ridimensionamento del settore finanziario ticinese: con l’acquisizione da parte di Ubs e la conseguente eliminazione delle caselle ‘doppie’, a rischio ci sono centinaia di posti di lavoro. Già da tempo la piazza luganese cerca di reinventarsi in concomitanza con la fine del segreto bancario, ad esempio guardando alle criptovalute. Che fare?

Purtroppo, anche in questo caso a livello nazionale si è proceduto a un salvataggio in assenza di un piano sociale e industriale più ampio, rivolto all’impresa e al comparto finanziario. Ancora una volta, invece, questa crisi dovrebbe spronarci a riconfigurare l’economia in modo che le competenze sviluppate nel mondo finanziario possano apportare valore aggiunto in altre dimensioni, quali il servizio alle imprese, la cura, l’educazione, l’innovazione tecnologica. Ho qualche dubbio su progetti di rilancio legati alle criptovalute, data la natura fortemente speculativa di questo genere di attivi.

Per innovare, comunque, servono forze nuove: l’invecchiamento demografico minaccia la sostenibilità di qualsiasi sistema. Per ogni 100 ragazzi, in Ticino nel 1950 si contavano 56 anziani. Oggi sono 174. Quali contromisure si possono prendere?

La situazione demografica è ‘inerte’ e ciò non dipende solo dalla dimensione locale. D’altro canto, in un cantone piccolo come il nostro si può imprimere un cambiamento significativo già andando a lavorare sull’attrattività del territorio – in termini di impieghi e salari, certo, ma anche di qualità della vita più generale. Il futuro anagrafico del cantone dipenderà molto da questa cornice, oltre che dalla capacità di attrazione dei nostri poli educativi e di ricerca, lavorando sull’asse con Zurigo ma anche instaurando una relazione più sana con la Lombardia. Per riuscirci, però, occorre andare oltre il “produci consuma crepa” e garantire un contesto pensato per accogliere persone, non solo braccia.

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