Una prospettiva di genere sulla criminalità organizzata è utile a meglio capirla e contrastarla. La sociologa Ingrascì, ospite all’Usi, ne spiega i motivi
«Studiare la criminalità organizzata da una prospettiva di genere è importante in primo luogo perché alcuni dei ruoli svolti dalle donne, pur non essendo penalmente rilevanti, sono fondamentali per dare continuità alle organizzazioni mafiose e dunque per la loro sopravvivenza. Conoscere questi ruoli è quindi utile per capire meglio il fenomeno e di conseguenza per meglio farvi fronte». Ad affermarlo è Ombretta Ingrascì, ricercatrice in Sociologia economica all’Università degli Studi di Milano, che giovedì a Lugano parteciperà alla tavola rotonda “La mafia declinata al femminile” promossa dall’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata dell’Università della Svizzera italiana. Cogliamo l’occasione per mettere in luce alcuni aspetti trattati nei suoi studi.
«Le mafie – articola la professoressa – non sono unicamente delle strutture criminali, ma sistemi molto più complessi che presentano anche una dimensione socio-culturale. Indagare questi aspetti attraverso l’analisi del ruolo delle donne, ma anche ad esempio dei minori e quindi di tutto l’ambito della sfera domestica e privata, permette di fare un ragionamento sulle politiche più adatte per contrastare le mafie che non devono essere solo di tipo repressivo, benché queste siano fondamentali – precisa Ingrascì –, ma anche di tipo culturale e sociale in ottica preventiva».
Un altro aspetto che l’utilizzo di una prospettiva di genere dà la possibilità di meglio comprendere è «il nesso tra modernità e tradizione all’interno della criminalità organizzata – spiega la ricercatrice –: le modalità con cui le mafie sono riuscite a sfruttare il processo di emancipazione femminile, che è uno degli aspetti della modernizzazione, sono rivelatrici della loro abilità nel trarre profitto dagli elementi di novità della società ma al contempo di mantenere quelli più utili appartenenti alla tradizione. Detto altrimenti, l’ibridazione tra modernità e tradizione, che da tempo viene sottolineata da storici e sociologi, emerge ancora più chiaramente se si studiano le donne all’interno di questi fenomeni».
D’altro canto, dice la sociologa, l’approccio di genere in questo ambito aiuta anche a meglio interpretare la società in quanto ne costituisce uno specchio: «Nei miei lavori sul tema donne e mafia utilizzo a più riprese il concetto di “pseudo-emancipazione femminile” che in molti casi può essere applicato alla condizione generale delle donne nella contemporaneità, nel senso che quando anche viene raggiunto un livello di parità formale tra uomo e donna spesso l’emancipazione intesa come liberazione non è totalmente acquisita».
Nelle proprie ricerche Ingrascì ha rivolto particolare attenzione alla rappresentazione delle donne legate alla mafia la quale, soprattutto sul piano mediatico, risulta molto stereotipata e si rifà a due immagini tra loro agli antipodi: «Da un lato abbiamo quella che potremmo definire tradizionale secondo cui le donne nei clan sono completamente estranee agli affari degli uomini della famiglia o perfino inconsapevoli. Si tratta di un cliché diffuso soprattutto in passato, ma talvolta veicolato ancora oggigiorno, dannoso anche perché le ha protette dallo sguardo giudiziario. Dall’altro lato c’è una rappresentazione che sempre più tende a imporsi e che io chiamo della “lady boss”, vale a dire quella secondo cui sarebbero le donne a governare dietro le quinte tutto il sistema mafioso, con un’efferatezza addirittura superiore a quella maschile. Questa visione è dovuta a una maggiore attenzione investigativo-giudiziaria sulle donne, che giustamente si è sviluppata in quanto il loro ruolo è cambiato, ma la realtà è che il potere viene loro delegato dai boss in circostanze ben determinate e a tirare le fila sono sempre questi ultimi».
Per svincolare la rappresentazione delle donne da questi due stereotipi va innanzitutto tenuto presente che esiste un’ampia varietà di vissuti. «Questo è bene ricordarlo perché siamo di fronte a un fenomeno molto articolato e spesso anche estremamente ambivalente – rimarca Ingrascì –. La condizione delle donne all’interno delle organizzazioni criminali è influenzata da molteplici fattori che fanno la differenza nel modo di abitare il loro ruolo. Entrano in gioco variabili come l’età, la classe di appartenenza, il ruolo e il livello gerarchico del proprio congiunto all’interno del clan, il tipo di organizzazione mafiosa, così come il temperamento personale».
Non bisogna pertanto generalizzare, tuttavia per i ricercatori è necessario avvalersi di una categorizzazione per inquadrare il fenomeno. Ingrascì a tale scopo ha coniato una tripartizione di “modelli di agency femminili” – articolate in “conforme”, “complice” e “trasformativa” rispetto alla mafia – che permettono di uscire dalla dicotomia stereotipata e di leggere anche le numerose ambivalenze dei ruoli delle donne all’interno della criminalità organizzata. «Agency – spiega la professoressa – è un termine utilizzato in ambito sociologico, traducibile con “agentività”, che si riferisce a un soggetto che agisce, dunque caratterizzato non da passività ma da attività, e che in questo contesto specifico impiego in un’accezione neutra, quindi né negativa né positiva».
Il primo modello che la ricercatrice identifica, quello che chiama dell’agency conforme al sistema mafioso, «è messo in atto da tutte quelle donne che obbediscono e si confanno a un ruolo prestabilito dall’organizzazione criminale di appartenenza. Come esempio possiamo portare il fatto che le donne, soprattutto nella ’ndrangheta, sono un mezzo della reputazione onorifica maschile e talvolta ancora oggi rappresentano una merce di scambio nelle politiche matrimoniali». Si pensi ai matrimoni combinati per creare alleanze tra clan, per suggellare pacificazioni, per ostentare la propria potenza finanziaria.
Il secondo modello, l’agency complice con il sistema mafioso, «è riconducibile sia a coloro che fanno parte del sistema mafioso perché hanno un ruolo di primo piano all’interno della sfera privata sia a coloro che danno un contributo all’organizzazione con delle azioni penalmente rilevanti. E abbiamo sempre più esempi di questa presenza delle donne nella sfera criminale», indica la studiosa, individuando una relazione con la trasformazione del ruolo della donna nella società. Ma di quale natura è questo potere femminile quando viene assunto? «Come è già stato messo in luce da diversi studi – come quelli di Alessandra Dino – in particolare per le donne di Cosa Nostra, si tratta di un potere delegato temporaneo e – aggiunge Ingrascì – anche oneroso, perché queste donne sono chiamate a sostituire gli uomini in momenti di grande difficoltà, ovvero quando sono detenuti o in latitanza. La congiuntura è quindi gravosa, devono gestire molte questioni, dalle attività economiche, al traffico di stupefacenti, ai rischi di lotte intestine. Si tratta di un ruolo molto faticoso ma che sono assolutamente in grado di assumere perché dispongono di uno know how mafioso che è stato sedimentato nel tempo».
Il vantaggio però va tutto a favore degli uomini, sottolinea Ingrascì: «Sanno che nel momento in cui escono dal carcere o dalla latitanza il potere torna loro indietro perché per statuto le donne non possono essere affiliate alla mafia. Per i boss è come mettere il potere in naftalina o in cassaforte. O se vogliamo utilizzare un’altra metafora, possiamo prendere quella della squadra di calcio: le donne sono sedute in panchina a fare da riserva pronte a entrare in campo quando un titolare ha bisogno. Poi però tornano al loro posto. Ed è questo che intendo con pseudo-emancipazione femminile, in quanto sono donne che comunque devono sottostare agli ordini maschili per cui non si può parlare di un reale avanzamento dal punto di vista dei rapporti di genere».
Avanzamento che però si verifica nell’ultimo modello, quello di agency trasformativa, che è messo in atto dalle donne che entrano in conflitto col sistema mafioso tanto da riuscire a uscirne. «E in questi casi sì che si innesca un processo di cambiamento a tutti gli effetti, un processo innovativo di trasformazione che ha un impatto sia a livello individuale per la storia di vita della donna, sia di tipo sociale – evidenzia la professoressa –. Pensiamo alle donne testimoni di giustizia o collaboratrici di giustizia che attuano una rivoluzione, ponendosi anche come modello positivo nei confronti dei figli e delle figlie». Diversamente infatti da quanto avviene nel ruolo di complice, in cui le donne si occupano anche della trasmissione dei principi mafiosi, «nel ruolo trasformativo la pedagogia mafiosa viene scardinata e sostituita – afferma la sociologa –. È trasmesso ad esempio il valore della parola che si contrappone alla legge del silenzio e dell’omertà. Questo tipo di comportamento porta le donne a distaccarsi dalle catene maschili e a trovare un percorso alternativo di liberazione». Un percorso molto difficile, rileva Ingrascì, «ma il fatto che siano eticamente orientate conferisce loro la forza di percorrerlo e di puntare verso un orizzonte di vera e propria liberazione».
La mafia e le donne: un binomio che esiste da sempre ma di cui spesso si parla troppo poco. È con questa consapevolezza che l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata (O-TiCO) propone giovedì 3 ottobre alle 17, nell’Aula polivalente del Campus Est Usi-Supsi Lugano (settore A), l’evento “La mafia declinata al femminile”.
Molte donne hanno avuto un ruolo attivo a sostegno delle cosche. Era il 1994 quando Libertina Rizzuto – figlia, moglie e madre di tre boss di Cosa Nostra – arrivò dal Canada sulle rive del Ceresio, dove venne arrestata allo sportello di una banca. Molte donne sono invece rimaste vittime delle organizzazioni criminali. Basti pensare ai risvolti locali del sequestro e dell’uccisione, sotto la regia della ’ndrangheta, della diciottenne comasca Cristina Mazzotti, tra i cui carcerieri c’era il contrabbandiere ticinese Libero Ballinari; un caso che nell’estate del 1975 scosse l’intero Nord Italia e che a quasi 50 anni di distanza conosce un nuovo capitolo sul fronte giudiziario apertosi lo scorso 25 settembre in Corte d’Assise a Como con l’obiettivo di ricercare la verità su chi ha materialmente messo a segno il sequestro della ragazza. Infine molte sono anche le donne scese in campo per combattere la mafia. Cittadine, funzionarie, poliziotte, magistrate, studiose, giornaliste. Tre di loro racconteranno la propria esperienza nel quadro del quarto convegno annuale promosso dall’O-TiCO.
Oltre a Ombretta Ingrascì, che parlerà di “Donne e mafie: tre modelli di agency femminile”, ci saranno Alessandra Cerreti, pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Milano, che interverrà su “Donne di mafia: il coraggio della verità”, e Alessia Truzzolillo, giornalista per LaC News24 e corrispondente Ansa che tratterà il tema “Madri e padri, come cambiano le famiglie di ’ndrangheta”. Le introduce Annamaria Astrologo, professoressa titolare dell’Istituto di diritto dell’Usi (IDUsi) e responsabile accademica O-TiCO; modera Francesco Lepori, giornalista Rsi e responsabile operativo O-TiCO.