Società

SwissLimbs, protesi per tornare autonomi

Da cinque anni l’Ong ticinese fornisce gambe artificiali per i Paesi in via di sviluppo. "E adesso costruiamo ospedali" spiega il direttore operativo Roberto Agosta

3 luglio 2021
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Possiamo chiamarle protesi low-cost, ma per chi li riceve queli arti artificiali significano prima di tutto la riconquista della mobilità persa con un'amputazione spesso evitabile, come ci ha spiegato il direttore dell'Ong ticinese SwissLimbs Roberto Agosta. L'organizzazione non profit ha raggiunto i cinque anni di attività, con progetti attivi in diversi Paesi africani: nel solo 2020 si parla di 928 beneficiari di una protesi, 30 tecnici ortopedici formati, due centri ortopedici rinnovati e un ospedale costruito.

Cinque anni di SwissLimbs: come è nato questo progetto?

L’inizio è stato nel 2013, con una startup chiamata SwissLegs. Un tecnico ortopedico mi ha fatto vedere questa sua invenzione, la monolimb, una gamba che non ha pezzi interni ma è semplicemente termoformata, leggera, fabbricata su misura sul moncone del paziente. Solo tre pezzi – la struttura in plastica, il piede e un adattatore – al posto dei diversi componenti che servono ad allineare l’arto.

Abbiamo vinto diversi premi, ma alla fine il modello economico che volevamo implementare non era quello giusto: vendere prodotti brevettati in Paesi in via di sviluppo, dove la gente fatica a mangiare, non funziona. Ci siamo quindi detti che bisognava creare una Ong, anche perché diverse persone volevano aiutarci tramite donazioni, ma non potevano farlo a una Sagl come eravamo.

È nata così l’Ong SwissLimbs.

Con Filippo Nishino, che adesso è presidente, abbiamo avviato l’Ong e abbiamo preso il volo: abbiamo portato questa soluzione dove c’era bisogno, senza cercare di vendere il brevetto, prima in Tanzania, poi in Uganda, siamo arrivati in Mozambico, quest’anno la Sierra Leone e siamo appena tornati da una missione in Ruanda.

È cresciuto non solo l’elenco di Paesi, ma anche la gamma di prodotti: siamo partiti da una gamba, poi ci hanno chiesto soluzioni per chi è stato amputato sopra il ginocchio e così abbiamo iniziato a portare componenti innovativi che fabbrichiamo noi abbassato i prezzi. E anche mani: forniamo delle mani mioelettriche, dotate di sensori che permettono il movimento in base a impulsi muscolari, a mille franchi, quando di solito sono sui 10-15mila franchi.

Per arrivare a questi prezzi immagino sia necessario fare dei compromessi.

Sì. Ad esempio l’imbottitura interna: la nostra è in etilene vinil acetato, mentre per le protesi nei Paesi sviluppati si usa il silicone che va cambiato ogni sei-nove mesi e costa tre volte il prezzo totale della gamba che forniamo noi. Stesso discorso per l’estetica, ma la mobilità dei nostri arti è la stessa.


Per la mano: cambiano la velocità di movimento e il rumore, magari c’è anche bisogno di un po’ più di manutenzione ma non è necessario avere un laboratorio e per le parti di ricambio abbiamo portato in Tanzania una stampante 3D, così possono realizzare da soli le componenti.

Non portate quindi solo le protesi.

Non portiamo neanche le protesi: portiamo materiali e soprattutto portiamo le competenze.

Sui materiali bisogna tenere presente che per il polipropilene ci sono pochissimi produttori a livello mondiale: noi lo importiamo dalla Gran Bretagna, di un tipo ad alta resistenza ma con una certa flessibilità, adatto per le protesi. Il piede è standard, li produce un’azienda che li vende a 120 euro e noi riusciamo a proporlo a 30 dollari.

Mandiamo il materiale, con container o se c’è particolare urgenza via aereo, ma soprattutto portiamo l’innovazione di un prodotto che costa meno ma è di qualità paragonabile o superiore alle altre soluzioni disponibili nei Paesi in via di sviluppo. Facciamo formazione, spieghiamo come costruire le protesi e una volta che hanno acquisito le competenze, sono liberi di procurarsi dove vogliono le materie prime.

L’attività si è ampliata con degli ospedali.

Abbiamo constatato che c’è una grande mancanza non solo di materiali e di competenze, ma anche di infrastrutture: non ci sono abbastanza studi ortopedici che possano garantire un servizio ai pazienti. Abbiamo quindi iniziato a costruirle, rivolgendoci a tecnici ortopedici che avevano voglia di lavorare autonomamente, invece che in strutture pubbliche spesso senza fondi e materiali.

Delle strutture private, quindi?

Si tratta di ortopedie autonome. Vendono le protesi a chi può permettersi di pagarle, mentre a chi non riesce la offrono a titolo gratuito. Vediamo che è un modello che funziona: il nostro beneficiario ultimo è chi non può permettersi di pagare, i poveri tra i più poveri, ma al contempo vogliamo aiutare i professionisti a espandere le proprie competenze.

L’obiettivo di SwissLimbs è quindi diventare superflua.

Il nostro obiettivo è avviare questi progetti, seguirli nelle prime fasi di sviluppo e poi vederli crescere. Adesso ne abbiamo diversi che sono nello stadio “infantile”, ma il primo in Tanzania adesso è autonomo e non ha più bisogno di SwissLimbs, se non per il materiale ma solo perché gli conviene rifornirsi da noi, per i costi e per i tempi.

Stiamo rompendo la mentalità, ancora prevalente, di acquistare materiali costosi che in poco tempo esauriscono i fondi a disposizione, interrompendo così il progetto. Con formazione, materiali e ortopedie invece il meccanismo porta a una moltiplicazione di queste iniziative e ultimamente abbiamo finito di costruire un ospedale ortopedico con chirurgia, fisioterapia, un’officina meccanica per carrozzine: attendiamo l’ultimo timbro governativo per aprire, ad agosto.

Come mai siete partiti proprio dalla Tanzania e in generale dall’Africa?

Una coincidenza. Il nostro lavoro è iniziato nel nord della Giordania, vicino al confine con la Siria, proprio per occuparci dei profughi siriani, molti dei quali senza gambe. Abbiamo creato la prima ortopedia, con alcuni interventi in Iraq e in Siria stessa ma le cose non hanno funzionato, per la guerra e per difficoltà nel dialogo con i governi. I progetti non sono andati avanti, non si è riusciti a farli diventare autonomi e nel frattempo ci hanno chiamato in Africa, dove invece le cose sono andate avanti.

Altre iniziative sono in corso: stiamo sviluppando un progetto in Sudamerica, dove siamo stati chiamati grazia a un’altra Ong ticinese; in Asia abbiamo avuto scambi anche se non ancora richieste vere e proprie. Noi chiaramente entriamo in un Paese se c’è una richiesta ufficiale, un mandato del ministro della salute.

Il destinatario tipico di queste protesi come ha perso l’arto?

Le cause per venire amputati sono diversissime. Ho incontrato persone che, come qui, hanno perso l’arto per incidenti, malattie, malattie congenite. Purtroppo, molte amputazioni non necessarie, evitabili con una migliore assistenza sanitaria. Ci sono poi casi per noi più insoliti: morsi di serpente, abusi – una madre ha picchiato una bambina fino a romperle le ossa – e anche punizioni. In Sudan come pena è prevista l’amputazione di un braccio o di un braccio e una gamba per i crimini più gravi. Tante mine, spesso risalenti ai conflitti degli anni Ottanta e Novanta, e vittime di guerra.

Molte amputazioni evitabili: con cure migliori in molti non avrebbero quindi bisogno di voi?

Più della metà sono casi evitabili. In guerra è in parte comprensibile: non c’è tempo, non ci sono i mezzi e per salvare la vita si taglia la gamba. Ma in molti casi le risorse ci sarebbero.

Ti amputano e poi visto che non hai i soldi non ti danno la protesi: è questa ingiustizia che ci motiva.

Più uomini o più donne tra i beneficiari?

All’inizio sembrava fossero più uomini, ma perché come accennato operavamo in Siria dove sono soprattutto gli uomini a combattere. In Africa siamo più o meno in parità. In Uganda più donne, perché gli uomini erano morti in guerra e le donne andavano a lavorare nei campi dove si trovano tante mine. Ovunque, tanti bambini che, crescendo, hanno bisogno di più arti..

Non vi sono quindi casi di discriminazione di genere, con donne a cui viene impedito di accedere a protesi?

No, devo dire che casi simili non ne abbiamo riscontrati. Noi ovviamente non facciamo nessuna discriminazione, né di genere né di affiliazione: anche se arriva un ribelle pronto a tornare a combattere, noi lo assistiamo, perché ci siamo dati come regola che per noi è un paziente, non un soldato.

Quello che abbiamo visto è diversi casi di donne abbandonate dai mariti perché non hanno più una gamba e quindi “non servono” più. Un problema sul quale c’è molta attenzione nelle strutture con cui operiamo.

Per queste persone cosa significa riavere un arto, per quanto artificiale?

Io credo che non sarò mai capace di realizzare pienamente che cosa vuol dire, per una persona che ha passato buona parte della propria vita senza un arto, finalmente poter riaverne uno, anche solo “cosmetico”. Di storie ne abbiamo raccolte tante, in questi anni. Riporto un episodio recente, un uomo di 38 anni, padre di due gemelli, amputato per una ferita al braccio quando aveva 11 anni. Siamo riusciti a procurargli un braccio ed era felicissimo perché poteva finalmente tenere in braccio i due figli contemporaneamente. È stato incredibile vedere la sua gioia, la gioia di sua moglie, vedere come sfoggiava il suo braccio nuovo, la sua fisionomia finalmente equilibrata.

La pandemia cosa ha comportato per voi?

Nel 2020 abbiamo lavorato molto di più: abbiamo ricevuto molte richieste e per far partire quei progetti abbiamo investito molto nel fundraising, ottenendo un ottimo risultato, cosa per cerit versi incredibile trovandoci in una pandemia. Abbiamo chiaramente viaggiato di meno, facendo molta formazione a distanza, ma appena è stato possibile siamo tornati nei Paesi dove operiamo. Sono aumentate le spese per il trasporto e per le materie prime, ma non ci hanno fermato.