Scienze

Vaccino per tutti, un problema etico

Come distribuire, una volta sviluppato, il vaccino per il nuovo coronavirus? Una proposta equa. E globale come lo è la pandemia

Vaccino sperimentale per il nuovo coronavirus in Sudafrica (Keystone)
3 settembre 2020
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È una pandemia, quella di Covid 19. Il che significa che non solo il problema è globale, ma che lo deve essere anche le risposte all’emergenza sanitaria. Perché “nessuno sarà al sicuro finché ognuno non sarà al sicuro”, come recita la presentazione del progetto Covax, l’iniziativa sostenuta dall’Organizzazione mondiale per la sanità che mira non solo allo sviluppo di un vaccino contro il nuovo coronavirus, ma alla sua distribuzione globale.

Far arrivare un vaccino in tutto il mondo, organizzando campagne di immunizzazione in luoghi rurali o di guerra, è una sfida impegnativa già per vaccini disponibili da tempo come quelli per il morbillo o la pertosse. Per eradicare la poliomielite in Africa sono occorsi oltre trent’anni, e il risultato è stato raggiunto, nelle scorse settimane, grazie alla versione più economica del vaccino che non richiede iniezioni e quindi personale medico.

Per il nuovo coronavirus si aggiunge il problema che il vaccino, se ci sarà, sarà scarso: le stime più ottimistiche parlano di una produzione iniziale di 1-2 miliardi di dosi che potrebbe arrivare, ma le incognite sono molte, a 4 miliardi alla fine del 2021. Una quantità notevole, ma inferiore, seppur di poco, ai 4,25 miliardi di dosi che il 18 giugno l’Oms ha stimato necessarie per immunizzare, a livello globale, personale sanitario e categorie a rischio.

Siamo di fronte a un problema etico prima ancora che clinico: qual è il modo più “giusto” per distribuire queste dosi?

L’Organizzazione mondiale della sanità propone un modello abbastanza semplice: vista la centralità dei sistemi sanitari sia per il coronavirus sia per le altre malattie, il personale di cura dovrà essere il primo a essere immunizzato. In un secondo tempo si dovranno vaccinare le persone di oltre 65 anni e infine gli altri adulti che, per problemi di salute, si trovano in categorie a rischio.

È tuttavia un approccio troppo rigido e, concentrandosi sulle persone da vaccinare anziché sugli effetti, rischia di portare a disparità eticamente inaccettabili. Questa la critica di alcuni esperti di etica clinica che su ‘Science’ (E. J. Emanuel et al., ‘An ethical framework for global vaccine allocation’) hanno proposto il Fair Priority Model. L’idea è trovare una modalità di distribuzione dei vaccini che vada a beneficio delle persone, aiuti i soggetti svantaggiati e non sia discriminatoria.

Il punto di partenza del modello riguarda le conseguenze della pandemia: è importante chiedersi non solo quanto il danno sia grande, ma anche se è irreversibile e se è possibile una compensazione. Da qui la suddivisione dei danni in tre categorie: al primo posto vi è ovviamente la morte da Covid-19 e più in generale le lesioni permanenti; abbiamo poi gli effetti indiretti sulla salute, in buona parte riconducibili al sovraccarico dei sistemi sanitari; infine, le conseguenze economiche e sociali.

La prima fase di vaccinazioni dovrebbe quindi avere come obiettivo la salvaguardia della salute, riducendo le morti da Covid-19. In questa fase l’impatto del vaccino va calcolato prendendo in considerazione gli anni standard di vita persi – in pratica, quanto prima si muore rispetto alla migliore aspettativa di vita possibile. Questo indice (chiamato Seyll) è stato scelto perché tiene conto delle disparità e, come scrivono gli autori, “tutte le morti sono importanti ma le morti premature sono particolarmente importanti”. La seconda fase prende in considerazione anche le conseguenze economiche più gravi, prendendo in considerazione l’impatto del vaccino sul reddito nazionale lordo. Infine, la terza fase mira a un ritorno completo alla normalità con la riduzione della trasmissione della malattia. La transizione tra le varie fasi, e quindi la valutazione di altri parametri per la distribuzione internazionale dei vaccini, dovrebbe avvenire quando a livello globale il coronavirus non è più un’emergenza ma una normale “sfida sanitaria”. 

Quali persone, e in quali Paesi, vaccinare nelle vari fasi non è stabilito a priori, ma dopo aver preso in considerazione questi parametri e proprio in questa elasticità sta, secondo gli autori, il vantaggio del Fair Priority Model. 

Il confine del vaccino

Questo riguarda la distribuzione del vaccino tramite il progetto Covax ma sono molti i Paesi che, pur sostenendo questa iniziativa internazionale, firmano contratti con singole case farmaceutiche. La stessa Svizzera, tra i primi sostenitori del progetto, ha siglato un accordo con la statunitense Moderna per 4,5 milioni di dosi e contando i contratti simili firmati da altri governi si arriva a impegnare buona parte della produzione di vaccini.

Se l’Organizzazione mondiale della sanità si limita a sottolineare i vantaggi di Covax – oltre alla natura globale della pandemia, sostenendo diversi progetti di ricerca il progetto presenta meno rischi di un accordo con una singola azienda -- , gli autori del Fair Priority Model prendono anche in considerazione il “nazionalismo dei vaccini”. È lecito, scrivono, che un governo agisca pensando in primo luogo ai suoi cittadini. Tuttavia questa priorità non può essere assoluta: la “ragionevole proposta” degli autori è che un Paese, una volta che l’indice di contagio Rt è inferiore a 1 (e quindi la diffusione della malattia è in calo), dovrebbe destinare le proprie scorte a Paesi in cui la pandemia si sta ancora diffondendo.