Dubbi, etici e scientifici, dell'annuncio di ieri dello scienziato He Jiankui. Un editing genetico i cui vantaggi, se vi sono, non giustificherebbero i rischi.
Sembra una puntata di Black Mirror. Come nella distopica serie tv britannica incentrata sugli effetti collaterali delle tecnologie, tutto sembra andare nel peggiore dei modi, nella vicenda delle due neonate con Dna modificato per essere immuni all’Hiv. L’annuncio fatto lunedì da He Jiankui, professore alla South University of Science and Technology of China, ha – comprensibilmente e giustamente – suscitato aspre critiche, non solo da chi istintivamente prova ribrezzo all’idea di “bambini Ogm” e diffida del progresso scientifico.
He Jiankui pare essere un ricercatore serio, con numerose pubblicazioni all’attivo: difficile pensare a un falso annuncio, per quanto non sarebbe il primo. Ma la scienza non si basa sulla fiducia degli scienziati e le modalità con cui si è venuti a sapere delle neonate lasciano aperti diversi dubbi. Nessun articolo ‘peer-reviewed’ (ovvero controllato da altri ricercatori esperti del tema), nessuna verifica indipendente dell’esperimento ma un annuncio a una conferenza. Che è un po’ il “grado zero” della ricerca scientifica, anche se è prassi presentare risultati preliminari durante i convegni.
Qui, tuttavia, più che un annuncio, abbiamo l’annuncio di un annuncio, perché He si è fatto intervistare dalla Associated Press il giorno prima dell’apertura del simposio, pubblicando poi una serie di video su YouTube per spiegare che cosa ha fatto e perché. Se non c’è nulla di male nel parlare con la stampa e col pubblico – anzi –, in genere lo si fa dopo aver reso disponibili i dettagli dell’esperimento, per un controllo. In questo caso l’unica certezza, per così dire, è la scheda presente nel registro cinese delle sperimentazioni cliniche. Un comportamento censurabile, per quanto non così raro all’interno della comunità scientifica.
Che cosa ha, o avrebbe, fatto He Jiankui? Stando a quanto dichiarato alla stampa, ha modificato il Dna di una ventina di embrioni allo scopo di disattivare un gene che controlla la proteina CCR5, usata dal virus dell’Hiv per infettare le cellule del sistema immunitario. In pratica, senza CCR5 si è immuni da (alcuni ceppi di) Hiv e Aids. Dei sedici embrioni in cui la modifica è (almeno in parte) riuscita, undici sono stati impiantati finché si è arrivati alla gravidanza e alla nascita di Lulu e Nana.
Qui occorre fare due premesse. La prima è che quel gene è naturalmente inattivo in una minoranza della popolazione di origine europea, condizione invece molto rara nelle popolazioni asiatica e africana. La seconda premessa è che, come forse qualcuno si ricorderà dalle lezioni di biologia, abbiamo due copie di ciascun gene e affinché si abbia questa immunità (che non è comunque assoluta) occorre che entrambe le copie siano inattive. Ma, stando a quanto riporta He, una delle due bambine ha solo una copia inattiva (e secondo alcuni scienziati interpellati dalla Associated Press c’è pure il rischio che la modifica sia avvenuta solo in una parte delle cellule).
Perché proprio questa modifica? Perché in Cina l’Hiv è un grosso problema sanitario e sociale, ha spiegato He. Gli embrioni sono stati ottenuti da ovuli di donne sane e sperma di uomini malati, ma lo scopo non era evitare l’improbabile contagio, bensì – citiamo dall’intervista alla Associated Press – “offrire alle coppie la possibilità di avere un figlio protetto da un simile destino”.
Ora, se il destino al quale si riferisce è lo stigma sociale, è fin troppo banale affermare che andrebbe affrontato con altri strumenti. Se invece si tratta dell’infezione, oltre alle terapie che garantiscono una aspettativa di vita paragonabile a quella della popolazione generale, vi è la prevenzione. Insomma, perché modificare il Dna – operazione non solo complessa, ma anche rischiosa come si vedrà – quando basta un preservativo?
Il motivo potrebbe quindi essere un altro. Come ha notato Anna Meldolesi sul Corriere della Sera, inattivare un gene è più semplice che correggerlo – come sarebbe necessario fare per delle vere malattie genetiche. L’Hiv e il CCR5 come scorciatoia per arrivare primo.
Primo in cosa, visto che la terapia genica si sperimenta da anni?
Due risposte. La prima riguarda la tecnica utilizzata, la Crispr (pronuncia “crisper”). Rispetto all’ingegneria tecnica tradizionale, sviluppata negli anni 70, Crispr è molto precisa, permettendo di intervenire a livello di singola lettera del Dna – per questo si parla di “editing genetico”. Si può ottenere una simile precisione anche con altre tecniche, ma sono meno semplici da implementare. Per questo Crispr sta rivoluzionando il settore. Tuttavia non è perfetta e, proprio questa estate, una ricerca del britannico Wellcome Sanger Centre ha mostrato che le forbici molecolari di Crispr potrebbero entrare in azione non solo nel punto scelto, ma anche in altre parti provocando danni. Insomma, Crispr non sarebbe ancora abbastanza matura per la terapia genica, meglio ricorrere ad altre tecniche di editing genetico. Come le cosiddette “dita di zinco” utilizzate – pare con buon successo – su un paziente affetto da una rara malattia metabolica, la sindrome di Hunter, per la quale non vi sono trattamenti efficaci.
Ma si trattava – e qui arriviamo al secondo primato di He – di un intervento sulle cellule somatiche, non quelle germinali. In altre parole: la modifica riguarda il singolo paziente (che ha acconsentito al trattamento), non i suoi futuri figli. Lulu e Nana, invece, una volta adulte passeranno il loro gene modificato alle future generazioni.
Ricapitolando: una sperimentazione annunciata male, compiuta con tecniche non ancora mature, senza un reale vantaggio per i pazienti e i cui effetti riguarderanno anche le future generazioni. Tutto nel peggiore dei modi, come in una puntata di Black Mirror. E si capisce come mai le autorità cinesi – restie a mettere paletti alla ricerca dal momento che la Cina punta molto sulle biotecnologie – abbiano avviato indagini.
Ma il vero problema non riguarda il rapporto tra He Jiankui e le autorità cinesi, bensì quello tra la comunità scientifica e l’opinione pubblica che, comprensibilmente, potrebbe chiudersi, bollando come inaccettabili anche pratiche scientificamente ed eticamente sicure.