Intervista a Grammenos Mastrojeni, segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo, ospite martedì della Supsi a Mendrisio
Che cosa significa adattarsi al cambiamento climatico? Una rete idrica che resista a forti piogge, ridurre le isole di calore in città e decine, centinaia di altri interventi puntuali. Ma non solo. «L’adattamento non è una semplice soluzione tecnologica ma va pensato in maniera completamente diversa: deve potenziare la comunità, costruire maggior giustizia, prevedere una ridistribuzione del reddito». Questo invito a considerare il riscaldamento globale un fenomeno sociale e politico viene da Grammenos Mastrojeni. Diplomatico, docente e scrittore, Mastrojeni sarà ospite, domani alle 18 al Campus Supsi di Mendrisio, del secondo appuntamento del ciclo Emergenza Terra promosso dal Dipartimento ambiente costruzioni e design della Supsi. L’intervento di Mastrojeni si concentrerà sul Mediterraneo, una zona particolarmente sensibile agli effetti del cambiamento climatico. «Il Mediterraneo è fragile, ma non solo perché ci sono impatti molto forti, ma anche perché è un mare asimmetrico di ricchi e poveri: riequilibrare questa situazione significa fare la cosa giusta per il clima e al contempo porre le basi per raggiungere quello che non abbiamo mai saputo raggiungere, cioè la pace».
Mastrojeni, dal 2019 lei è Segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo. Ci può spiegare che cosa è questa istituzione?
È un’organizzazione di 43 Stati membri: tutti i Paesi dell’Unione europea, gli altri che si affacciano sul Mediterraneo e la Mauritania. È nata con il mandato di rimuovere le cause profonde della conflittualità che sono sempre state presenti intorno al nostro mare e abbiamo ritenuto che il modo migliore per farlo sia accelerare l’attuazione, nel Mediterraneo, di un’agenda sostenibile. La sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma si traduce anche in giustizia e migliore ridistribuzione, elementi che sono di per sé meno conflittuali.
Creare quindi le basi perché in futuro non nascano nuovi conflitti.
Sì. Diciamo che siamo una versione regionale delle Nazioni Unite: ci occupiamo di dialogo e coordinamento su molte questioni essenziali. Siamo al centro di nuovi progetti per creare un’integrazione energetica nel Mediterraneo, per passare a un sistema basato sulle rinnovabili. Ci occupiamo anche di questioni come la redistribuzione delle opportunità economiche, il lavoro e l’integrazione scientifico-tecnologica.
Quando si parla di cambiamento climatico si pensa in primo luogo all’ambiente, forse meno alla geopolitica.
In realtà, il collegamento non è così difficile da cogliere. Nel Mediterraneo esiste, come detto, una grande asimmetria, è un mare di ricchi e di poveri, con trend demografici opposti: un Sud in esplosione demografica e un Nord in declino. A questi fattori di destabilizzazione si aggiunge il cambiamento climatico: il Mar Mediterraneo è quello che si riscalda più rapidamente di tutti e le previsioni di impatto associate a questi fenomeni sono francamente preoccupanti.
Ad esempio?
La lista mi prenderebbe una giornata intera: ne cito giusto due. Prevediamo che entro una decina d’anni, circa 250 milioni di persone saranno in scarsità idrica. Il Mediterraneo, essendo il mare che si scalda più velocemente, è anche quello che si innalza più rapidamente perché il livello del mare dipende non solo dalla fusione dei ghiacciai ma anche dalla dilatazione termica: ci aspettiamo un innalzamento di circa venti centimetri entro 10-15 anni e oltre un metro alla fine del secolo. A prima vista non sembrano tanti, venti centimetri, ma dobbiamo pensare che il problema non è solo l’acqua che copre i terreni, ma l’infiltrazione di acqua salata nelle terre agricole. I miei avi romani ci hanno insegnato che per dominare un popolo bisognava batterlo in guerra, ma se di quel popolo non volevi più sentire parlare bisognava spargere il sale sui loro campi.
Oltre il 40% della sicurezza alimentare è concentrata sui piani costieri e l’acqua di mare rischia di sterilizzare zone fragili come il Delta del Nilo, mettendo in crisi la sicurezza alimentare di un Paese di 100 milioni di abitanti come l’Egitto. Ma una situazione simile la abbiamo anche in Italia, nel delta del Po.
Però il cambiamento climatico non sembra occupare una posizione di rilievo, nelle ‘agende politiche’ europee.
Su questo punto vorrei rassicurarla: sicuramente non c’è il grande accordo, ma la situazione e la sua gravità sono chiare a tutti. E si stanno prendendo provvedimenti, anche se sfuggono perché meno “sexy” di fatti di cronaca o di politica.
Sappiamo ad esempio che per decarbonizzare l’Europa occorre appoggiarsi anche sul potenziale solare della sponda Sud del Mediterraneo e sul potenziale eolico dei Balcani, ma questi settori non possono crescere se si basano solo sui mercati locali. È quindi nato un progetto di investimento di miliardi di euro, con Paesi che stanno iniziando a posizionarsi come hub di distribuzione o produzione di energie rinnovabili, grazie anche a un movimento politico, scientifico e tecnico per eliminare le disparità di standard nei vari sistemi energetici. Il Mediterraneo si sta anche avviando, un po’ più velocemente di altri Paesi, per avere una navigazione con minori emissioni.
Ci siamo anche accorti che entro una decina d’anni il Sud dell’Europa avrà lo stesso clima che hanno sempre avuto i Paesi nordafricani. Loro sanno come gestirlo, noi no e questo porta a condivisioni di risorse e conoscenze, a forme di collaborazione silenziose ma molto importanti. Pensate solo al settore vitivinicolo: c’è una migrazione verso nord dei vitigni che è velocissima.
Parliamo di condivisione di tecniche e tecnologie dal Sud al Nord del Mediterraneo.
Non è una questione tecnica, ma è una questione altamente politica, nel senso che di fronte a una crisi della velocità e dell’ampiezza di quella che si prevede, nessun Paese del Mediterraneo può farcela da solo. Nessun Paese ha risorse sufficienti ma se mettiamo insieme quelle cose che ci differenziano, e che magari in passato ci facevano anche litigare, ci rendiamo conto che abbiamo a disposizione soluzioni più ampie.
Certo, il nostro è un mare difficile, pieno di frammentazioni e conflitti, ma si stanno già creando dei progetti concreti. Le faccio solo un esempio: fino a circa 7-8 anni fa, i progetti di cavi per l’energia rinnovabile di origine solare dal Sud al Nord del Mediterraneo erano circa 8. Oggi, ad appena pochi anni di distanza, sono 256. Anche la finanza è coinvolta: ci sono calcoli secondo cui, se si integrasse il sistema energetico, alimentare e manifatturiero, si risolverebbe uno dei pilastri di questa grossa fragilità mediterranea, che è appunto il divario tra ricchi e poveri.
Però, ripeto, è una questione profondamente politica, non è solo il fatto che cerchiamo di copiarci un po’ a vicenda delle tecniche.
Siamo ancora in tempo per mitigare gli effetti della crisi climatica, riducendo le emissioni, o dobbiamo piuttosto puntare sull’adattamento?
Una prima cosa da dire è che dobbiamo scordarci di poter fermare il riscaldamento adesso: anche se fermassimo le emissioni oggi, c’è un periodo di latenza in cui tutti questi impatti si manifesteranno sempre di più.
Detto questo, qual è la relazione tra mitigazione e adattamento? La mitigazione è occuparsi delle cause, l’adattamento degli effetti e a prima vista avrebbe senso occuparsi un po’ di più delle cause e un po’ di meno degli effetti. Solo che noi siamo in una situazione in cui, senza adattamento, diverse comunità entreranno in uno stato di destabilizzazione. Parliamo di una situazione di emergenza che comporta tragedie umane e ricadute geopolitiche con conflitti, migrazioni eccetera. E anche che queste comunità non saranno più in grado di mitigare, perché in una situazione di emergenza non si può guardare al domani.
Quindi c’è una decisa accelerazione sull’adattamento, soprattutto per quanto riguarda la sponda sud del Mediterraneo, ma non solo: pensiamo solo al problema degli incendi forestali. Dobbiamo renderci conto che anche se siamo un po’ più ricchi non siamo immuni da questi fenomeni.
Insomma, adattarci per poter mitigare.
Questo è un aspetto. Dopodiché – e non voglio citarlo come documento religioso, ma come motivo di riflessione – Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ evidenzia un problema: il cosiddetto paradigma tecnocratico. Non è pensabile risolvere questi problemi soltanto grazie a tecnologie migliori che ci permettano di produrre come prima ma con minore impatto, perché non faremmo altro che spostare nel tempo la soglia del tracollo. Il cambiamento climatico è frutto dell’ingiustizia, non dello sviluppo: l’attuale impatto ambientale nasce da un’economia polarizzata con estremamente ricchi ed estremamente poveri. Con un accesso equo alle risorse e a uno stile di vita dignitoso, certi fenomeni di distruzione e di sfruttamento verrebbero meno. Quindi è tutto molto e profondamente politico, va a riguardare le basi profonde di quella che chiamiamo economia, l’idea di avere delle posizioni più o meno dominanti nel mondo.
Questa prospettiva un po’ spaventa, pensando alla sfida quasi impossibile che ci aspetta.
È fortunato se è solo un po’ spaventato: io sono terrorizzato.
Speravo in una conclusione un po’ meno angosciante, per la nostra intervista.
Allora proviamo a mandare un messaggio positivo: ci stiamo rendendo conto, forse a forza di colpi in testa, che dobbiamo cambiare modello. E nel Mediterraneo, che è pure particolarmente esposto ai rischi, abbiamo fatto dei passi avanti, forse perché siamo la prima zona a rendersi conto che l’unica soluzione è mettere in comune quello che abbiamo. So che la cronaca quotidiana sembra suggerire il contrario, però i movimenti reali, quelli più strutturali, vanno in questa direzione.