Pensiero

Umberto Curi: lo straniero va incontrato, non assimilato

È incontrando l’altro che si capisce chi siamo, ci spiega il filosofo Umberto Curi, ospite sabato del festival Sconfinare di Bellinzona

7 ottobre 2021
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Parliamo di confini, stranieri, integrazione ma, precisa Umberto Curi, «con un approccio filosofico, anche per evitare le banalità di cose che ormai sappiamo e che sono fonte di controversie». Il filosofo italiano – per oltre 40 anni ha insegnato all’Università di Padova – sarà ospite sabato di Sconfinare, il festival di Bellinzona che si aprirà già oggi alle 18.30 in Piazza del Sole con un incontro dedicato alle associazioni culturali partner, seguito dall’inaugurazione della videoinstallazione Flying River di Felipe Castelblanco e Lydia Zimmermann e dalla proiezione di ‘Amazonian Cosmos’ di Daniel Schweizer. Programma dettagliato su www.sconfinarefestival.ch.

Tornando alla giornata di sabato, quando dalle 10 si alterneranno vari relatori – tra cui il vincitore del Premio Strega Emanuele Trevi e il giornalista Gad Lerner – Curi alle 13.30 terrà una conferenza intitolata “Il confine come luogo d’incontro con l’altro”.

Siamo abituati a pensare al confine come separazione, divisione.

Sì, il confine è certamente la linea che separa, che divide e quindi che tendenzialmente contrappone, ma ciò che è più caratteristico del confine – anche rispetto a termini apparentemente sinonimi come “frontiera” o “limite” – è il ‘cum’ che compare in ‘cum-finis’. Il confine non serve soltanto a dividere ma costituisce anche un luogo di incontro con l’altro, con lo straniero.

Insisterò su questa duplicità di funzione del confine a partire dal riconoscimento che i luoghi non si diversificano tra di loro solo sulla base di criteri quantitativi ma anche per la diversa qualità che li contraddistingue. E il confine è appunto un luogo qualitativamente diverso perché istituisce un rapporto proprio nel momento in cui definisce anche una divisione.

Di solito si dice ‘divide et impera’. Qui abbiamo un “dividi e incontra”.

Certo. Con alcune implicazioni che spesso vengono dimenticate. Se è vero che il confine è anche il luogo di un incontro, si tratta di un incontro in cui non possiamo sapere anticipatamente le caratteristiche e le intenzioni di quelli che incontriamo. Non potremo mai sapere in anticipo se quello che incontriamo è semplicemente uno straniero che secondo una lunga tradizione culturale chiede di essere accolto oppure se è un ‘hostis’, un nemico. Questa incertezza tuttavia non ci esonera da quello che direi è l’atteggiamento obbligato nei confronti dell’altro: istituire un rapporto. Non solo e non tanto per espressione di generosità, ma perché attraverso questo rapporto conquistiamo la nostra identità. L’unico modo per definire la propria identità è la relazione con l’altro.

L’identità la possiamo costruire in rapporto o in contrapposizione con l’altro.

Questi due approcci hanno un presupposto comune: la necessità di non sottrarsi al rapporto con l’altro. Pur nella incertezza dell’esito di questo incontro, pure nella possibilità che questo incontro si riveli pericoloso, non posso sottrarmi al compito di misurarmi con l’altro proprio perché l’altro – che si tratti di un nemico o di uno straniero – mi è necessario per la definizione della mia identità.

Il confine come luogo di un incontro necessario, quindi. Eppure per alcuni questo incontro non deve esserci.

È una tentazione indotta da due vizi o limiti. Il primo è quello della paura di misurarci con ciò che è ancora sconosciuto. Alla paura si aggiunge poi la pigrizia nella convinzione di poter essere autosufficienti. Soprattutto nello scenario globale attuale l’autosufficienza è evidentemente impossibile e, piaccia o meno, l’aprirsi alla relazione con l’altro è una pratica imprescindibile. E allora si tratta di andare a questo incontro sapendo che non possiamo farne a meno. E sapendo che questo incontro può decretare una crescita intellettuale, morale e conoscitiva. Perché è misurandomi con l’altro che posso accrescere la mia conoscenza, la mia maturità.

L’altro è straniero per me e io sono straniero per lui: questa reciprocità è parte dell’incontro?

No, anzi. Volendo sottolineare alcune implicazioni concrete, questa consapevolezza che l’altro che incontro è davvero altro rispetto a me – per cultura, per religione, per gastronomia, per consuetudini, per tradizione –, questa consapevolezza dicevo dovrebbe evitare una delle contraddizioni in cui troppo spesso incorre l’accoglienza dello straniero, quella che pretende che l’altro per poter essere accolto debba assomigliarci.

Questo è uno dei luoghi comuni più diffusi, ma quando si dice che si è disposti ad accogliere l’altro quando condivide la mia lingua, la mia religione, le mie tradizioni, quello che si dice è che si è disposti ad accogliere l’altro a condizione che non sia davvero un altro.

Il concetto di integrazione, su cui si basano le politiche di immigrazione, è quindi ambivalente?

È ambivalente perché bisogna accogliere l’altro. Non è solo una questione di “buonismo”, e qui devo osservare che è davvero triste constatare come essere buoni sia diventato un limite, un difetto o addirittura una specie di accusa infamante che si rivolge a chi pratica l’accoglienza.

Ma è vera accoglienza quella che si rivolge all’altro nella sua specifica identità, e affinché ci sia una identità, sia davvero altro da noi, non può esserci simile, non può essere assimilata. Altrimenti si arriva al paradosso di essere d’accordo nell’accogliere lo straniero a condizione che non sia straniero.

Finora, e lo dico senza polemica, abbiamo fatto filosofia. Può essere tradotta nella pratica?

Credo che la filosofia possa contribuire in molti modi. Innanzitutto eliminando o riducendo l’atteggiamento, che direi infantile, di paura nei confronti dell’altro. Un atteggiamento che vediamo essere molto diffuso anche perché alimentato consapevolmente da alcune formazioni politiche che tendono a far coincidere il problema di grandi dimensioni delle migrazioni con un problema di sicurezza. Vi è questa tendenza consolidata a individuare nello straniero la fonte di mille pericoli anche quando si limita a cercare un lavoro, una casa, assistenza sanitaria, formazione scolastica. Come se le conquiste che vanno sotto il nome di Stato sociale fossero messe in pericolo dalla sola presenza dello straniero.

Liberarsi da questi pregiudizi è già un primo passo per mostrare di aver superato quello stato di paura irrazionale suscitata dalla figura dell’uomo nero.