laR+ Locarno Film Festival

Un Festival da ricordare

Anche se il palmarès della giuria presieduta da Jessica Hausner non ha sorpreso

‘Green Line’ di Sylvie Ballyot
19 agosto 2024
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Con la consegna dei premi e la proiezione in Piazza Grande di ‘Le procès du chien’ di Laetitia Dosch, sabato si è chiusa ufficialmente l’edizione numero 77 del Locarno Film Festival, edizione segnata innanzitutto dal cambio di presidenza, dal veterano Marco Solari a Maja Hoffmann la cui presenza è stata discreta, a differenza dell’attivismo del predecessore, probabilmente più vicino al mondo ticinese dell’erede.

Non ha sorpreso il palmarès della giuria presieduta da Jessica Hausner: conoscendo la sua idea di cinema, dopo la proiezione per la stampa di ‘Akiplėša’ (Toxic) della giovane regista lituana Saulė Bliuvaitė diverse persone avevano pensato che proprio quel film avrebbe vinto il Pardo d’oro. E così è stato, meritatamente e non casualmente.

Il Premio speciale della giuria è andato all’austriaco ‘Mond’ della anche lei giovane Kurdwin Ayub. Due premi per due registe che parlano di giovani donne: se Saulė Bliuvaitė ci mostra la deriva delle adolescenti lituane attratte dall’unico desiderio possibile di diventare modelle, Kurdwin Ayub ci fa conoscere il dramma di un gruppo di sorelle segregate in un paradiso dorato dal fratello e dai genitori, con unica uscita l’autoimmolazione.

Il Pardo per la miglior regia, certamente meritato, a Laurynas Bareiša per il suo ‘Seses’ (Drowning Dry) porta un secondo premio importante alla Lituania, che salgono a tre con uno dei premi per la miglior interpretazione sempre a quattro tra attrici e attori di ‘Seses’ (Gelminė Glemžaitė, Agnė Kaktaitė, Giedrius Kiela e Paulius Markevičius), per quanto scelta poco convincente. L’ altro Pardo per la miglior interpretazione è andato all’attrice sudcoreana Kim Minhee, protagonista di ‘Suyoocheon’ (By the Stream) di Hong Sangsoo, un premio che segnala un film che meritava la selezione in competizione.

La stessa giuria ha dato due menzioni speciali: una a ‘Qing Chun (Ku)’ (Youth (Hard Times)) di Wang Bing, uno dei film più importanti visti in Concorso, quattro ore dense di impegno sociale, di linguaggio cinematografico e di cruda poesia; e una a ‘Salve Maria’ della spagnola Mar Coll, un film che fin dall’inizio era stato dato meritevole del palmarès e che porta a tre i film firmati da registe segnalati dalla giuria, un segnale necessario e atteso. Premi non regalati ma capaci di segnalare una novità nello stantio mondo cinematografico, ed è fondamentale che questo sia successo a Locarno, un festival da sempre attento al cinema d’autore.

Fuori dal palmarès restano comunque film che hanno lasciato il loro segno in questo concorso, pensiamo a ‘Bogancloch’ di Ben Rivers, un film che è ricerca di linguaggio, che è poesia delle immagini; ‘Fogo do Vento’ di Marta Mateus che è storia del cinema, per il suo rigore narrativo antispettacolare; ‘Green Line’ di Sylvie Ballyot, un documentario-documento necessario per leggere il tragico oggi in Medioriente; ‘Cent mille milliards’ (Centomila miliardi) del francese Virgil Vernier girato in 16 mm, un film che ha il merito della semplicità del dire, e la tristezza dei sogni impossibili e non ultimo ‘Yeni șafak solarken’ (New Dawn Fades) del turco Gürcan Keltek, forse il film più poetico e politico del Festival.

La giuria dei Cineasti del presente, presieduta da C.J. “Fiery” Obasi, ha dato il Pardo d’oro a ‘Holy Electricity’ del georgiano Tato Kotetishvili, un film che con tenerezza mette in evidenza un mondo, quello della Georgia di oggi, pieno di fragilità sociali e civili. Interessante il Premio per la miglior regista emergente, alla giovane ticinese di origine capoverdiana Denise Fernandes per il suo ‘Hanami’, un premio che fa bene anche ai giovani registi del Ticino. I due pardi per la migliore interpretazione sono andati a Callie Hernandez – splendida interprete di un film politico che distrugge il mito americano e lo calpesta, ‘Invention’ di Courtney Stephens – e per la protagonista di un altro duro film, questa volta una metafora della distruzione sociale fatta dalla scuola ungherese, Anna Mészöly per ‘Fekete Pont’ (Lesson Learned) di Bálint Szimler.

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