“Si impara moltissimo da come il pubblico percepisce un film”, parola della regista austriaca Jessica Hausner, presidente della giuria
Chi arriva un po’ in anticipo alle prime proiezioni dei film in competizione la avrà certamente notate: una fila di poltrone coperte dal nastro leopardato e dal cartello “Jury”. Sono i posti riservati alla giuria, uno dei cuori dei festival cinematografici, con una direzione artistica che seleziona i film e, appunto, una giuria che decide quale premiare e quale no – talvolta decretando la fortuna cinematografica di un film.
Certo non è sempre stato così e anche Locarno ha avuto, negli anni Sessanta, edizioni senza una competizione ufficiale e il primo Pardo d’oro (prima il premio era una vela), nel 1968, non venne assegnato dalla giuria ufficiale che si era ritirata per questioni politiche – in competizione c’erano diversi film provenienti dal blocco comunista e poco prima dell’inizio del Festival l’Unione sovietica aveva appena invaso la Cecoslovacchia. Da allora, con alti e bassi, le giurie sono lì. Oggi ci avviciniamo alla giuria del Concorso internazionale con la presidente Jessica Hausner.
Quello della regista austriaca Jessica Hausner a Locarno è un ritorno: il suo primo cortometraggio, ‘Flora’, nel 1997 venne premiato ai Pardi di domani. «Quando Giona (Nazzaro, ndr) mi ha chiesto di far parte della giuria, e addirittura di presiederla, mi sono sentita allo stesso tempo felice e onorata: non vedevo l’ora di tornare nel posto dove avevo mostrato il mio primo lavoro» ci ha raccontato la regista. «Locarno è un festival molto interessante per via della sua selezione di film molto originale, con film ‘art house’ particolari e altri più di intrattenimento, una selezione che trovo bilanciata e interessante».
Come una scuola di cinema
Per una regista, che cosa significa giudicare l’opera di colleghe e colleghi? Hausner, che una decina di anni fa è già stata in giuria a Venezia, fa subito il paragone con le scuole di cinema. «Si impara moltissimo da come il pubblico percepisce un film: in tutte le mie esperienze del genere ho sempre trovato che due persone, due membri della giuria, vedono sempre qualcosa di leggermente diverso. Come cineasta è importante perché mi ricorda che non esiste una cosa come “il pubblico”: esistono tante persone che, proprio come i giurati, vedono i film in competizione e non puoi mai essere sicuro che tutti capiscano, o apprezzino, quello che avevi intenzione di dire. E trovo questo molto liberatorio».
Le chiediamo quanto sia importante vedere i film insieme al resto del pubblico, ma subito la sua espressione poco convinta porta a chiederle se la cosa una qualche differenza. «Non credo cambi molto: i film mi piace anche vederli da sola, perché quando sei in uno spazio con così tante persone (il Concorso è presentato al Fevi, sala da 2800 posti, ndr) c’è sempre molto rumore, molta distrazione». E le reazioni del pubblico non possono aiutare nella comprensione del film? «No, non credo: anche se a un certo punto del film senti delle persone ridere, questo non significa che anche tu debba ridere. Ho assistito a proiezioni dei miei film completamente differenti: a volte ci sono grandi risate, altre volte silenzio. Ma poi alla fine chiedo se si sono divertiti e mi rispondono di sì: semplicemente non sono persone che ridono rumorosamente. Ecco, quello che per me fa la differenza è poter parlare con le persone, ascoltare le domande al termine della proiezione mi è di grande aiuto per comprendere che cosa le persone hanno visto nei miei film – certamente più di una risata».
Peraltro, i film di Hausner sono di quelli che di domande ne sollevano. Citando dalla sua filmografia, abbiamo un’insegnante che plagia alcuni studenti al digiuno estremo per salvare il pianeta (‘Club Zero’, presentato a Cannes l’anno scorso), una pianta che dà la felicità a chi la accudisce ma i cui pollini mutano profondamente la personalità di chi li inala (‘Little Joe’ del 2019) o ancora gli effetti di una apparentemente miracolosa guarigione (‘Lourdes’, 2009). Quelli che vengono definiti, con una certa pigrizia lessicale, “temi controversi” – scelti però vengono non per provocare, ma per interesse. «Nella mia testa c’è un costante monologo interiore sui film, sulle scene dei film, sulle trame dei film, sempre alla ricerca di idee interessanti». Che cosa intende con “interessanti”? «Interessante per me significa ambiguo, significa che c’è qualcosa di sfidante, che pone una domanda audace. Appena trovo una idea di questo tipo, mi metto a fare ricerche, raccolgo il maggior numero possibile di dettagli e da lì inizio a costruire la storia, cercando di mantenere la stranezza del reale, quei momenti contraddittori in cui tu hai ragione, io ho ragione eppure nessuno dei due ha ragione».
“Stranezza del reale” (‘weirdness of reality’) è una bella espressione per definire i film di Hausner. Film che si caratterizzano anche per un grande rigore nella costruzione dell’immagine, dai colori alle inquadrature. «Per me è molto importante: col tempo ho imparato che costumi e scenografia giocano un ruolo importantissimo nella mia narrazione. Per esempio, lo strano umorismo che si trova nei miei film a volte viene dai costumi: una donna piange perché suo figlio è malato, ma indossa orecchini rosa che dondolano in continuazione mentre piange, il che è una strana contraddizione». Costumi in genere realizzati da sua sorella Tanja Hausner, «una collaboratrice fondamentale». Questa importanza di scenografie e costumi si aggancia a un aspetto quasi filosofico dei suoi film: i personaggi non sono semplicemente inseriti in un ambiente, ma ne sono in qualche misura determinati. Alcuni autori costruiscono complesse biografie dei loro personaggi, per capire cosa pensano e come agiscono. «Io non ne ho bisogno, perché i miei film descrivono interazioni umane fondamentali e non importa cosa è successo nella mia infanzia, perché quello che conta è cosa faccio adesso, quale posizione occupo nel gruppo di persone con cui sto interagendo. Cerco di trovare ambientazioni che rappresentino la gerarchia della nostra società. Ecco perché utilizzo spesso le uniformi nei miei film: l’uniforme dice molto».
Partendo da questa idea, forte e personale, di cinema, come si valutano opere molto diverse come quelle del Concorso? «Un criterio è cercare di capire quello che il o la regista stava cercando di dire e riflettere sui mezzi utilizzati, perché a volte si scopre che i due aspetti non si aiutano a vicenda: magari la storia e la forma funzionano bene da sole, ma non interagiscono e il risultato è ridondante, kitsch, artefatto. Solo raramente si vede un film in cui c’è un interessante equilibrio tra la storia e la forma, e questo è per me molto importante: magari il film continua a non piacermi, ma quella è una questione di gusti».