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‘Hanami’, la saudade di chi decide di restare

La regista Denise Fernandes, cresciuta in Ticino, ha presentato il suo primo lungometraggio nei Cineasti del Presente

15 agosto 2024
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Una casa senza porte e senza finestre, una remota isola di fuoco, chi resta e chi se ne va per sempre… ‘Hanami’ è il primo lungometraggio della regista Denise Fernandes, nata a Lisbona da genitori capoverdiani, cresciuta a in Svizzera a Locarno. Si sviluppa sullo sfondo brullo dell’isola vulcanica di Fogo, a Capo Verde. Attraverso la storia di Nana e il suo “coming of age”, la regista torna alle origini e ci porta in un viaggio che restituisce alla vita la sua poesia. Un omaggio toccante alla terra capoverdiana, spesso dimenticata, e alla sua popolazione.

Ci troviamo oltre il tempo, in uno spazio dove magia e realtà si alternano con sorprendente naturalezza. ‘Hanami’, un termine che celebra la bellezza fugace dei fiori di ciliegio in Giappone, ci parla della bellezza struggente di ciò che è impermanente. Il film investiga anche, tramite la metafora giapponese del Kintsugi, la possibilità di riparare con l’oro ciò che è andato a pezzi. Le immagini sono sempre vicine a Nana e alle sue vicissitudini, interpretata da Daílma Mendes e Sanaya Andrade alla loro prima esperienza cinematografica (non esistendo un'industria del cinema, a Capo Verde non ci sono neanche attori professionisti). La fotografia offre immagini curate, delicate e intense. ‘Hanami’ è caratterizzato da un’estetica raffinata. Le riprese sono vicine e riescono nell’intento di trasmettere le esperienze di Nana, che rimane sull’isola mentre molte persone per lei importanti se ne vanno, in modo intimo e sincero.

Attraverso un linguaggio che danza con il realismo magico, Hanami indaga la tensione tra la vita e la morte, tra chi resta e chi se ne va e la “saudade” che sperimentano entrambi.

L'intervista

‘il cinema è anche uno strumento di unione’

Denise Fernandes, questo progetto ha richiesto otto anni di lavoro. Quali sono state le sfide?

È stato un viaggio pieno di meraviglie ma anche di insuccessi, dubbi, paure, porte chiuse... il tutto inizia da un'idea che nasce fievole, e che poi si alimenta con il desiderio di riuscire a trasformarla in realtà. Ma prima del prodotto finale (il film è stato completato in giugno) ho convissuto con un film che esisteva solo nella mia mente, che era una fantasia. Girare un film, un lungometraggio, ti mette continuamente a confronto con la concretezza delle cose.

Perché hai voluto raccontare questa storia?

Tutto nasce dalla volontà di mostrare una piccola parte di Capo Verde, che è ancora un Paese piuttosto sconosciuto, soprattutto in occidente. Le immagini, quasi imposte dal turismo, non sono una vera rappresentazione: credo che molto isole del "sud" soffrano di un'immagine, di uno sguardo riduttivo che si impone su di loro. Vengono viste soprattutto come cartoline, luoghi di vacanza. Per rendere visibile questo arcipelago – dal quale provengo e che è così piccolo che da bambina notavo come spesso fosse assente dalle mappe e dai mappamondi – ho realizzato questo film.

Con ‘Hanami’ sei tornata a Capo Verde, dove avevi già girato il cortometraggio ‘Nha Mila’ (2020). Cosa continua a chiamarti alle origini?

Forse c'è anche quasi un senso di dovere. Un film è una rappresentazione e io sono una cineasta. I miei primi lavori sono stati girati in Svizzera, poi a Cuba, e solo i due più recenti mettono al centro le realtà di Capo Verde. Se non li avessi fatti, non esisterebbero e dunque si torna a quell'invisibilità quasi ingiusta che marginalizza, distacca... Sento che il cinema è anche uno strumento di unione.

Come hai scelto l’isola di Fogo?

Quest'isola è una tela, una tela magica, impossibile non essere ispirata da un'isola africana con al centro un vulcano. Mi ha invitato a esplorare la mia creatività senza censurarmi, senza impormi limiti.

La saudade è un sentimento importante per questo film. Cosa rappresenta per te questo sentimento?

Per me è importantissimo, sono cresciuta in mezzo alla saudade. Sono nata nel 1990, durante la mia infanzia i mezzi di comunicazione tra Europa e Africa erano molto scarsi. Quando qualcuno emigrava, lasciava un vuoto, un silenzio. Io mi trovavo in Europa, e osservavo questo sentimento nella la maggior parte delle persone capoverdiane che conoscevo, che erano soprattutto membri della mia famiglia.

Al centro dei racconti che porti sullo schermo ci sono le donne, raccontate con poesia, tanto nella fragilità che nella forza… che messaggio desideri comunicare al mondo di oggi con le tue storie al femminile?

Sono cresciuta sentendo che la femminilità – un termine molto aperto e variegato, che racchiude molti tipi di energia, forze, colori – dovesse essere messa da parte se si vuole fare cinema. Era spesso associata a una certa idea di superficialità. Mi piacerebbe, e credo che negli anni recenti ci sia stata molta più apertura, che persone di ogni genere possano essere il pubblico per i film al femminile, non solo le donne. Sono molto ottimista riguardo a questo.

Il rituale dell'Hanami è una cerimonia originaria del Giappone che celebra la bellezza fugace dei fiori di ciliegio: come nasce questo legame tra isole molto lontane?

Capo Verde soffre della mancanza di pioggia. Questa mancanza è citata in tantissime poesie e nelle canzoni Capoverdiane. Se fosse fertile e abbondante, non ci sarebbe questa grande emigrazione. Per me la parola Hanami rappresenta l'opposto. Dopo che i fiori di ciliegio fioriscono si trasformano in petali di pioggia. Da bambina sono cresciuta sentendo che l'Africa veniva definita dall'occidente, con termini che la distaccano dal resto del mondo, come se fosse un luogo lontano, inospitale, estraneo dove accadono solo cose brutte. In realtà non è così, e questa connessione con il Giappone vuole mettere in luce le similitudini di due paesi che in apparenza sembrano appartenere a estremi opposti ma che sono uniti dal fatto che sono isole, hanno vulcani, le tartarughe, e anche una certa poetica.

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