Il regista svizzero, premiato con il Locarno Kids Award la Mobiliare, racconta il suo cinema per bambini ma capace di affrontare le ingiustizie globali
“Ma in che senso elitario?”. Il ragazzo che ha fatto, o meglio esclamato, questa domanda ha ben chiaro il significato di quella parola e anche il senso di quello che, durante uno dei tanti evento mondani, stava affermando uno dei responsabili del Locarno Film Festival – un ringraziamento a uno dei partner della manifestazione, la Mobiliare, per aver reso possibile la Rotonda e il programma Locarno Kids con la sua ricca offerta di laboratori e di proiezioni per il pubblico più giovane. Per aver, appunto, sfatato il mito di un Festival elitario e qui è arrivato il sorpreso commento del ragazzo che, evidentemente, quel mito non l’ha mai conosciuto e, pur non essendo magari in grado di comprendere o apprezzare certi film della Piazza o delle altre sezioni, non ha quell’idea di astrusità riservata a una élite.
Locarno Kids nasce proprio con l’idea di formare il pubblico di domani e il Festival ha capito che il modo migliore per farlo è non limitarsi a laboratori e proiezioni pomeridiane – in una sezione interessante anche per chi non è più ‘kids’ –, ma avere il coraggio di andare in Piazza Grande, dove ieri sera Claude Barras ha ritirato il premio Locarno Kids e si è potuto vedere il suo ‘Sauvages’, un film che Cannes ha selezionato ma messo nella “Séances spéciales Jeune Public” e che a Locarno non ha solo la prima svizzera, ma il primo vero incontro con un ampio pubblico.
Abbiamo incontrato Claude Barras prima della proiezione serale in Piazza e, nonostante la stanchezza per le tante interviste una dopo l’altra, a prevalere era l’emozione di chi sta per presentare il suo film non solo davanti a giornalisti e addetti ai lavori, ma «nella sala più grande del mondo».
Mentre parliamo, sul tavolo ci sono i protagonisti di ‘Sauvages’, i pupazzetti di Kéria e di Oshi usati per l’animazione, con due grosse scatole che contengono le “espressioni di ricambio” che servono, nel paziente lavoro di animazione a passo uno, a dar vita ai personaggi. «Per me, così, è come se fossero morti» ci ha spiegato Barras. Ma a dar loro vita non è tanto il movimento che si ottiene mettendo insieme i tanti piccoli movimenti, ma le voci. «Per me i personaggi sono soprattutto la voce: ci si concentra sulle marionette, ma per me l’anima è la voce: attrici e attori arrivano quando i personaggi sono già disegnati, la sceneggiatura è già scritta, i dialoghi già pronti ma sono attori e attrici che, interpretando quei dialoghi, modificandoli, aggiungendo un respiro o una pausa, danno quelle emozioni che rendono vivi i personaggi».
‘Sauvages’ è un film per bambini?
Sì: io l’ho pensato per un pubblico a partire dai 7 anni e mi sembra funzionare. Siamo abituati a pensare che i film per un pubblico giovane debbano essere di puro divertimento e avere una animazione fantastica, così ci troviamo un po’ disorientati con un film d’animazione che è realistico e molto documentato.
Come già per ‘La mia vita da Zucchina’, si affrontano temi importanti – la deforestazione, lo sfruttamento di risorse naturali e di altri popoli – in maniera accessibile a bambine e bambini ma senza semplificazioni o banalizzazioni.
Mi interessano i problemi della nostra società, le domande che i bambini possono porsi e le difficoltà con cui potrebbero confrontarsi: ‘La mia vita da Zucchina’ affronta ad esempio la violenza del mondo adulto o quella tra bambini e come superare i momenti di difficoltà. In ‘Sauvages’ si parla piuttosto della violenza del mondo commerciale, di quello che viene chiamato neocapitalismo o neocolonialismo che ci permette di acquistare cibo a poco prezzo ma che, dall’altra parte del mondo, distruggono le foreste e le persone che le abitano, aggravano il riscaldamento globale. So che non è allegro, spiegare queste cose a bambine e bambini, ma il mondo in cui viviamo, e che lasceremo loro, è fatto così e credo che sia importante, per loro, prenderne coscienza.
Nel film emerge molto bene come quella deforestazione, e quelle violenze, avvengono dall’altra parte del mondo ma sono di fatto opera nostra, siamo noi a farle comprando certi prodotti.
Sì. Un aspetto complicato del film è proprio la mancanza di un cattivo: anche chi abbatte gli alberi della foresta, non lo fa perché è una persona malvagia, ma per guadagnare i soldi necessari a sopravvivere. Potrebbe fare qualcosa, è complice ma non è cattivo. E non lo siamo neanche noi quando compriamo i prodotti frutto di deforestazione: non siamo cattivi ma complici sì, perché potremmo fare qualcosa.
Il progetto è accompagnare la visione del film a delle campagne mirate, in collaborazione con varie associazioni tra cui la Fondazione Bruno Manser, per dare informazioni su cosa è possibile fare.
Perché questo titolo che riprendere un termine, “selvaggi”, che può essere offensivo?
Il titolo è un po’ uno specchio, perché la parola è ambivalente: puoi dare a qualcuno del selvaggio perché è cattivo e violento, ma anche sentirti selvaggio nel senso di sentirti libero e forte. Mi interessava mantenere la complessità di questa parola anche se può essere male interpretata – ma credo che nel film si capisca in fretta il senso.
In un film d’animazione l’ambiente viene ricreato in studio, senza bisogno di muoversi. Lei però è voluto andare in Borneo, perché?
Molto semplicemente, volevo essere sicuro di poter fare questo film cadere in quella che credo si chiami “appropriazione culturale”: leggo qualche libro, guardo qualche immagine e racconto una realtà che si trova dall’altra parte del mondo.
È una realtà che mi riguarda, perché come abbiamo detto tutto è collegato, ma allo stesso tempo è culturalmente molto lontana da quello che conosco. Aver avuto la possibilità di vivere con una famiglia del popolo Penan, vedere come vanno a caccia, svegliarmi nella notte nella foresta… mi ha fatto sentire di aver davvero fatto il percorso di Kéria. Grazie al Fondo Bruno Manser ho avuto accesso a risorse sulla lingua e l’artigianato Penan e questo è stato molto utile.
Quanto è stata coinvolta la comunità Penan?
Abbiamo fatto un lavoro che reputo molto importante. Ho ad esempio integrato leggende del luogo che però ho un po’ cambiato e loro dovevano essere d’accordo sul cambiamento – mi hanno risposto che è normale che le leggende cambino da un luogo all’altro e dunque potevo tranquillamente raccontarla in maniera un po’ differente ma ho ugualmente voluto il loro permesso. Poi c’è stato il problema della lingua e ho avuto la fortuna di trovare due persone, una madre e una figlia, che sono cresciute nella foresta del Borneo e che vivono in Francia e ci hanno aiutato con la traduzione e la pronuncia, facendo un fantastico lavoro con attori e attrici. È stata una grande fortuna incontrare queste persone, credo siano le uniche due al mondo a parlare sia il francese sia il Penant.