Incontriamo il regista Luc Jacquet, premiato in Piazza Grande, che racconta la sua Antartide attraverso una spedizione intima ed emozionale
Tierra del Fuego, Punta Arenas, Capo Horn, Antartide. Nomi che solo a pronunciarli catapultano l’immaginazione in luoghi sperduti e misteriosi, lontani non solo geograficamente. Terre ostili con cui, almeno per chi ha la possibilità di esplorarle, mettersi alla prova capitolando sotto una bellezza eterna da togliere il fiato e ridimensionare il proprio ego. Un assaggio di esplorazione di quella intrigante regione del mondo che è l’Antartide lo dà ‘Voyage au Pôle Sud’ di Luc Jacquet, autore nel 2005 de ‘La marcia dei pinguini’ che gli è valso, fra gli altri, il Premio Oscar per il miglior documentario nel 2006.
La 76esima edizione del Festival omaggia il regista e biologo francese con il Locarno Kids Award, premio (istituito nel 2021 e consegnato quell’anno a Mamoru Hosoda e nel 2022 a Gitanjali Rao) attribuito alle personalità che attraverso il proprio lavoro avvicinano le nuove generazioni al cinema. La cerimonia dedicatagli si è svolta ieri sera in Piazza Grande, prima che sullo schermo gigante venisse proiettato il suo nuovo lavoro. Oggi (martedì 8 agosto), Jacquet parteciperà altresì a una conversazione pubblica al Forum @ Spazio Cinema, alle 13.30.
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Un premio dedicato alle personalità che con il loro lavoro avvicinano i giovani al cinema
Apriamo una parentesi prima di dare la parola al nostro interlocutore per un fatto di cronaca accaduto ieri sera durante la cerimonia di premiazione. Alcuni attivisti per l’ambiente sono saliti infatti sul palco della Piazza prima della proiezione di ‘Voyage au Pôle Sud’. Il fuori programma si è svolto in modo pacifico: “Abbiamo dato loro lo spazio per diffondere il messaggio”, fa sapere il Locarno Film Festival, che non farà denuncia. La serata è poi proseguita normalmente. Dalle voci raccolte nel retro palco, i manifestanti avrebbero avuto accesso pagando regolare biglietto.
laRegione
Gli attivisti per il clima ieri sera in Piazza
Torniamo a Jacquet, che è nato a Bourg en Bresse il 5 dicembre 1967, trascorrendo l’infanzia per le montagne dell’Ain. Attratto dalla natura e la scienza, completa un master in biologia all’Università di Lione I (nel 1991) e intraprende quindi una specializzazione all’Università di Grenoble in gestione degli ambienti montani. A 24 anni (è sempre il 1991) prende parte a una missione scientifica in Antartide, lunga 14 mesi. Quella sarà la prima di una lunga serie di spedizioni. Là scopre la sua vocazione, filmando i pinguini capisce che quella è la sua strada e inizia una formazione come cameraman e poi come regista di documentari.
L’impegno per il pianeta non si esaurisce nel cinema e, nel 2010, istituisce la fondazione Wild-Touch, che ha quale motto ricostruire il legame fra uomo e natura attraverso l’immagine e l’emozione.
Per la prima volta a Locarno, abbiamo avuto l’occasione di incontrare Luc Jacquet, per scambiare quattro chiacchiere su ‘Voyage au Pôle Sud’ che mostra una natura colossale e un ritorno del regista in quelle terre scoperte per la prima volta una trentina di anni fa. Il bel film (un’ora e venti circa) è un racconto intimo ed emozionale di una spedizione che dalla Patagonia approda al Polo Sud, luoghi che segnano una bipartizione nella sintassi del viaggio che si fa diario intimo. Fuori campo, la voce del regista racconta la spedizione: la sua narrazione è elegiaca e di tanto in tanto retorica, richiamando alla memoria i récit delle grandi spedizioni esplorative del passato – rimandando alle grandi figure di ieri: da Magellano a Shakleton e Amundsen, passando per Cook, Darwin, FitzRoy, Charcot –, che hanno una loro tradizione letteraria, nella quale l’uomo si misura con la magnificenza e l’impenetrabilità della natura.
Nel ‘Voyage’, lo spettatore è coinvolto nella spedizione a più livelli, in primo luogo perché è accolto nelle prospettive del narratore, fatta di fotogrammi la cui fotografia spettacolare ricorda, almeno a chi scrive, alcuni scatti della ‘Genesi’ di Salgado. Immagini che non documentano, ma connotano grazie anche alla forza del bianco e nero che assolutizza. Ma la storia non è fatta solo di immagini, imprescindibili elementi narrativi sono anche suoni e musiche: il tintinnio dei coni di ghiaccio che si sciolgono, la banchisa che si frantuma in rumori secchi al passaggio della prua della nave, i versi degli animali, gli sbuffi… l’avventura è anche nelle orecchie di chi guarda e la musica rende gli spettatori epidermicamente partecipi all’emozione dell’esplorazione.
Insomma, ci è parso di intendere questo film come la storia del rapporto fra uomo e una natura che è umanizzata nell’apparizione degli animali, ma addentrandosi diventa minerale: lì, qualunque segno di vita tace, inghiottito dal grande bianco; eterno.
© Luc Jacquet
Da ‘Voyage au Pôle Sud’
Signor Jacquet, questo lavoro si può considerare una lettera d’addio all’Antartide?
Spero non sia un addio. A distanza di trent’anni dal primo viaggio al Polo Sud, mi sono ritrovato a riflettere sul magnetismo che quella regione esercita su tutti coloro che ci sono andati e soprattutto tornati. Il primo passo fatto su quella terra provoca dipendenza. La domanda a quel punto è stata: perché succede? C’è qualcosa di illogico: si è lontani da casa, dalla famiglia, dagli amici… non c’è niente, si rischia di morire e nonostante ciò si torna. Credo che la risposta alla domanda che mi sono posto vada ricercata nel rapporto che stabiliamo con il pianeta, la necessità di avere dei luoghi di evasione, dove trovare rifugio. Per me significa rifugiarmi nella bellezza del mondo e questo è molto importante, in un momento in cui nel mondo c’è tanto antagonismo.
Questo film si discosta molto dai suoi lavori militanti di denuncia della crisi ecologica e di sensibilizzazione sull’importanza di proteggere il pianeta. Questa è la storia intima di un viaggio. Tuttavia sottotraccia un moto di difesa della natura c’è e ricollegandomi al motivo della bellezza, crede che sia quella a salvare il mondo (come diceva il principe Miskin di Dostoevskij)?
Al giorno d’oggi si fanno tanti discorsi sulla crisi ecologica, abbiamo anche tante conoscenze scientifiche in merito, ci sono studi e proiezioni che ci dicono cosa è accaduto, perché e cosa accadrà se non attuiamo le soluzioni proposte. Sappiamo tutto. Nonostante le conoscenze e gli avvertimenti del mondo scientifico niente è cambiato. Dal canto mio, mi sono anche impegnato con iniziative di sensibilizzazione, ma senza grandi risultati. Che cosa si può aggiungere allora? Che cosa si può fare di più affinché ci sia un cambiamento? (lo dice con amarezza e delusione; ndr). Mi sono quindi detto che oggi bisogna tornare all’essenziale e ciò significa raccontare un luogo che supera e trascende l’essere umano, che levando gli occhi al cielo si perde in una bellezza immensa e ineffabile, che dà brividi senza capirne le ragioni. Una bellezza che non si riesce a descrivere: le parole sono troppo corte e va quindi trovato un altro linguaggio. Il mio linguaggio è stato questo e uno degli intenti era condividere quell’esperienza, un’iniziazione anzi, sperando provochi emozioni in chi è disposto a viverla.
Il film è pervaso dal grande silenzio, che è un elemento forte che coesiste con suoni d’ambiente e musiche. Come è stata composta la parte sonora?
Nei miei lavori uso sempre la musica con un intento emozionale, per condividere un’emozione laddove io l’ho provata. Uso il linguaggio empatico della musica, ma c’è anche un enorme lavoro sul suono. Dirò di più, suono e musica in questo film sono stati composti insieme, normalmente invece il montaggio dei suoni precede la composizione musicale.
Da ‘Voyage’ ci pare emergere una natura colossale, maestosa, dura, che richiama l’immaginario romantico (in senso storico), per cui al suo cospetto l’essere umano non è che un corpuscolo. Il rimando a quella natura lì, che lascia attoniti e intimoriti, è forse la via che ci riconduca ad averne rispetto (e cura)?
Viviamo in un mondo in cui si crede di aver addomesticato la natura, ci si sente potenti, pensando di poter trascorrere la nostra vita senza avere la necessità di piantare un seme, perché tutti i nostri bisogni sono soddisfatti. Ma, nell’intimo, i nostri bisogni hanno sempre radice nella natura, anche se sono deviati.
Lei nasce come biologo, ma poi ha messo le conoscenze acquisite negli anni di studi a servizio del cinema. Degli anni Novanta sono gli esordi dietro alla cinepresa, quando ha iniziato a lavorare come cameraman per il regista svizzero Hans-Ulrich Schlumpf (‘Der Kongress der Pinguine’, 1993) proprio in Antartide. Quell’incontro ha cambiato il corso della sua vita… che ricordi ha?
Per quel periodo provo una tenerezza infinita e sono emozionato a parlarne. Tutto è capitato per caso, in partenza per l’Antartide, mi hanno chiamato e mi hanno chiesto se volessi fare riprese per il film di Schlumpf, io non lo avevo mai fatto prima e non avevo mai immaginato di lavorare nel cinema. Mi sono ritrovato a Zurigo e in quattro giorni ho dovuto imparare tutto... Ad Hans-Ulrich devo il fatto di aver spinto, per me, la porta del cinema, perché di ritorno da quell’esperienza mi disse “hai l’occhio, dovresti continuare” e da quel momento qualcosa ha iniziato a frullarmi per la testa…
© Luc Jacquet
Da ‘Voyage au Pôle Sud’