laR+ L’intervista

When Joe Lovano came to Sicily

Seconda generazione di siculo-americani, devoto di Coltrane, leggenda della musica: ‘Lovano Supreme’, un viaggio alla riscoperta delle radici del jazz

Nel film di Franco Maresco, fuori concorso
(LFF)
10 agosto 2023
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Per Dean Martin era ‘Come Back to Sorrento’, per i sorrentini è ‘Torna a Surriento’, piccolo manifesto dell’emigrante che Elvis, con molta meno poesia, un bel giorno trasformò in ‘Surrender’. Da solo, sassofono in mano, Joseph Salvatore Lovano detto Joe la suona alla festa organizzatagli dal cugino Calogero a Cesarò, poco distante da Alcara Li Fusi, luoghi d’origine dei nonni. Un’altra festa, a Lovano, gliel’ha organizzata Franco Maresco, che in ‘Lovano Supreme’, fuori concorso a Locarno76, ne ha documentato il viaggio in Sicilia alla ricerca delle proprie radici, quelle di uno dei grandi del jazz moderno.

Noi titoliamo alla Frank Zappa (per completezza, ‘Summer 82: When Zappa Came to Sicily’), e cioè di quando i parenti del genio vennero nella ‘sua’ Partinico, ricordando il rocambolesco concerto del 1982 a Palermo. A Locarno, Maresco titola ‘Lovano Supreme’, giocando con l’album del ’65 di John Coltrane (‘A Love Supreme’, altro manifesto), omologo di cui Lovano è devoto e che omaggia nel concerto palermitano al centro del film (che, al contrario di quello di Zappa, si è svolto regolarmente). Il racconto dell’uno – Joe, protagonista, seconda generazione di siculo-americani nati a Cleveland, Ohio – è occasione per il racconto dell’altro –, John, non protagonista, innovatore morto giovane – in 85 minuti di film sul jazz che sono una piccola dichiarazione d’amore.

«‘Back to Sorrento’ è famosa come ‘O sole mio’, e se sei un improvvisatore puoi trovare un feeling jazz in ogni melodia», ci dice Lovano a un tavolo del bar del PalaCinema, con al fianco la moglie cantante Judi Silvano. L’occasione è la prima del film, applaudita come un’esecuzione di ‘Giant Steps’, seguita da un lungo Q&A (domande e risposte) e da una generosa session di autografi. «Quelle melodie sono vicine al mio cuore, sono standard a tutti gli effetti». Lovano ci è cresciuto, e molte stanno in ‘Viva Caruso’, album del 2002 inciso con Judi, orchestra, fiati, percussioni e una street band, suonate jazz. «È uno dei lavori di cui vado più orgoglioso», ci dice. Due dei brani ivi contenuti si ascoltano anche nel film.


’Lovano Supreme’

Si dice che gli ‘assolo’ debbano essere cantabili: quanta italianità c’è nei suoi, Mr. Lovano?

Ci sono diversi approcci per improvvisare. Alcuni suonano tante note, o trascrizioni di altri assolo, oppure pattern. Io ho imparato dal suonare melodie e canzoni e il mio approccio odierno è quello di provare a sviluppare il senso profondo della bellezza delle melodie; più invecchio, più mi accorgo di focalizzarmi su questo. Per far sì che l’armonia si integri nell’armonia, con un feeling anche ritmico che garantisce swing e groove, questo è un modo di suonare, che credo si trovi negli ultimi dischi per la Ecm. Il mio approccio è sempre più lirico, e questo sì viene dalle mie radici, ma è anche indirizzato verso la meditazione, per realizzare qualcosa di fattivo con le mie note, oltre che suonarle.

La spiritualità è alla base degli ultimi lavori di Coltrane, compreso quello che ha ispirato il titolo del film: sente di seguire le sue orme?

Ascoltando quel modo di suonare, suo e di Miles Davis, Keith Jarrett, c’è una direzione precisa nell’esecuzione, ed è la profonda meditazione. Rollins ne è un esempio, Coltrane anche. La questione spirituale che guida John nell’ultima parte della sua vita ha un corrispettivo in gioventù: suo padre era un predicatore e suo nonno anche, Coltrane cresce in quel mondo del dire, con quell’attitudine, la stessa del blues, che è una storia, e il modo in cui essa è raccontata è assai spirituale, ce lo insegnano Billie Holiday, Bessie Smith, per esempio, e non a caso Coltrane, all’inizio della sua carriera, suonò con voci del blues. Poi, naturalmente, si spese in più fasi di sperimentazione, ma quella qualità di predicatore è sempre stata in lui, fino a trovare piena realizzazione in ‘A Love Supreme’, una dichiarazione d’intenti.

Suo padre ha suonato con Coltrane, lo si dice all’inizio del film…

Sì, in una jam session a Cleveland, era il ’49 o ’50, ora non ricordo. Coltrane suonava il sax alto, erano i giorni in cui suonava con la blues band di Johnny Hodges e nella band di Dizzy Gillespie. Mio padre lo amava, sono cresciuto col racconto di quella notte e con i dischi, dal primo album a ‘Blue Train’, alle registrazioni della Impulse, quelle dell’Atlantic. Quando Coltrane morì, nel 1967, avevo 14 anni e la radio jazz di Cleveland trasmise per 24 ore di fila la sua musica; mio padre piazzò un registratore a cassette davanti all’apparecchio e la registrò. Ho ancora quelle cassette.

La sua idea della produzione musicale di Coltrane, cito liberamente dal film, è quella di una registrazione unica…

Sì, anche se sono consapevole delle differenti fasi della sua carriera. Nel mio approccio verso di lui negli anni mi accorgo di averlo considerato in questo modo, cercando di suonare con un’apertura che viene da questa convinzione, sin da giovanissimo.

Lei sostiene di aver speso parte della sua vita a cercare di suonare con chi aveva suonato con Coltrane. A parte il figlio Ravi, incontro ravvicinato è anche il suonare nella stanza di John, a casa sua, a mio parere uno dei momenti magici del film…

Era la prima volta che suonavo il mio strumento in casa sua, ma ero già stato in quel luogo, che è un sito di rilevanza storica. Io e Judi fummo invitati in passato con il figlio Ravi e con Dave Liebman, ma ogni estate c’è un concerto nelle vicinanze, per celebrare la morte di John. Da quando Alice non c’è più (Alice McLeod, pianista, organista e arpista che sposò Coltrane nel 1966, ndr) ci sono stato un altro paio di volte. Quest’ultimo invito è accaduto per caso, quando la crew italiana è venuta a New York per filmare il Village Vanguard. Così ho portato tutti con me.

Del Village Vanguard, tempio del jazz, lei elenca molti dei grandi che vi hanno suonato e parla della sensazione dello stare ‘nel pubblico dei maestri e poi, a un tratto, loro diventano il tuo pubblico’. È così che un jazzista riconosce il successo?

È un momento di presa di consapevolezza. Non pensi tanto che ce l’hai fatta, piuttosto che la cosa ora è un po’ più reale, e che devi darci dentro ancora di più con lo studio. Lo dico anche ai miei studenti, che oggi sono nel mio pubblico ad ascoltarmi e molto presto, ma per qualcuno è già accaduto, io sarò nel loro. Penso a quando suonai davanti a Elvin Jones, nel 1975 a Cleveland: io ero nella band che apriva il concerto del suo quartetto, che comprendeva Steve Grossman, e loro erano in sala. Fu lì che iniziò la collaborazione: dopo avere fatto qualche apparizione con lui durante gli anni 80, suonai dal vivo nel 1986 per una tournée di nove settimane, io e Judi nella Elvin Jones Jazz Machine. E poi lui suonò nel mio disco, ‘Trio Fascination’, per la Blue Note, con Dave Holland. È così, le cose succedono.

‘Going Back to My Roots’, canta Lamont Dozier, tornare alle radici. Il suo è stato come se l’aspettava?

In Sicilia ho incontrato persone, sono venuto a conoscenza di molte nuove cose sul mio passato. La Sicilia è una terra che contiene altre terre, è un luogo dalle influenze mediorientali, nordafricane, italiane e nordiche insieme. È quella sensazione che ho provato in Turchia, a Cipro, in Grecia, l’incrocio di musica e cultura che fa sì che impari qualcosa ovunque tu vada. È vero che siamo l’espressione delle nostre radici, ma è vero anche che l’ambiente ti nutre e genera nuove idee. Ecco perché continuo a imparare.

La discografia di Joe Lovano è rigorosamente jazz, sono rare le sue escursioni in altri più ‘festaioli’ ambiti, con tutto il rispetto per la festa, sempre ‘elegantissima’…

Sì, ma mi sono calato anche io in situazioni più commerciali e ho imparato a dare il massimo in qualsiasi circostanza. La cosa più commerciale fatta di recente è stata suonare nell’album ‘Cheek To Cheek’ di Tony Bennett e Lady Gaga (anno 2014, ndr), chiamato da Tony per registrare alcuni assolo. Lui mi conosceva dai tempi dell’orchestra di Woody Herman, quando suonavo alle sue spalle nella sezione di sassofoni. Quell’anno andammo ai Grammy insieme, il disco ne vinse uno e io fui nominato per due altre registrazioni. Finimmo in un party privato e vivemmo una di quelle folli esperienze, non proprio jazz.

E allora approfittiamo di lei per un ricordo di Tony Bennett.

Persona meravigliosa, un uomo mediterraneo, socialmente impegnato. Negli anni 60 marciò con Martin Luther King. Era un cantante pop, ma improvvisava come i migliori cantanti jazz, e il jazz era tutto per lui. Nelle registrazioni per il suo disco, suonai negli spazi delle registrazioni già completate, riservate appositamente a me: mi aspettavo che Tony mi avrebbe chiesto di fare qualcosa di specifico, e invece sa cosa mi chiese? Il permesso di fotografarmi mentre suonavo, e mi ritrovai in un suo dipinto.

Come improvvisatore, pensando a Tony, sostengo che si debba essere flessibili a creare musica nella categoria in cui ti trovi. Mi è successo di recente con Diana Krall. Sono influenzato da quanto accade nell’immediato, e spinto a dare sempre il mio contributo. E mi sento di poter suonare con tutti.


Con la moglie, cantante e compositrice, Judi Silvano