Nato povero e diventato signore dell’American songbook, finito all’inferno per rinascere leggenda: storia dell’ultimo dei grandi crooner statunitensi
‘Come mi disse una volta Duke Ellington: la vita ha due regole: regola 1, non mollare mai; regola 2, ricordatevi sempre la regola 1’
Il 12 febbraio del 1952, migliaia di fan si presentano vestite di nero poco fuori la cattedrale di San Patrizio a New York. La popolarità del 26enne Tony Bennett, che sta per sposare la prima moglie, Patricia Breech (poi ne sposerà altre due), è esplosa definitivamente con il suo primo n. 1 nella Billboard, ‘Because of You’, brano che dall’aprile del 1951, data di pubblicazione, il cantante avrebbe messo in scaletta sino all’ultimo suo concerto.
Giusto il tempo di elaborare il lutto e le fan di Bennett sarebbero tornate a sorridere (o a commuoversi, uno degli effetti prodotti dal cantante) sulle note di ‘Rags to Riches’, altro n. 1, e per sempre su ‘I Left My Heart in San Francisco’, brano scritto dall’allora semisconosciuto George C. Cory Jr., rigettato da molti artisti e poi caldeggiato dal direttore musicale di Bennett al suo protetto. Il futuro inno della Golden City, malgrado fosse stato scelto come lato B di ‘Once Upon A Time’, farà più successo del lato A. Farà, soprattutto, la fortuna del suo interprete: alla quinta edizione dei Grammy, riceverà un doppio riconoscimento, Migliore performance vocale maschile e per Disco dell’anno, intitolato come la canzone.
L’informazione è aggiornata a ieri, 21 luglio, data della sua morte. Tony Bennett, di Grammy Awards, ne ha vinti diciannove più uno ‘alla carriera’. Ha vinto anche 2 Emmy, il prestigioso NEA Jazz Masters e l’altrettanto prestigioso Kennedy Center Honoree, occasione in cui tutti i grandi della musica viventi rendono onore al premiato di turno ed eseguono le sue canzoni. Nel caso di Bennett: Winton Marsalis, Diana Krall, John Legend e K.D. Lang, introdotti da Quincy Jones. Ad applaudire, presidenti ed ex presidenti americani, e Tina Turner.
Non c’è spazio per tutti i riconoscimenti, anche umanitari, di un democratico che non si è mai tirato indietro. Tony Bennett era nato Anthony Dominick Benedetto il 3 agosto del 1926 da immigrati italiani partiti da Podargoni, Reggio Calabria. Orfano di padre già all’età di 10 anni, la futura stella della musica cresce in povertà, ma ascoltando la musica di Louis Armstrong, Bing Crosby e Judy Garland; mette un piede nel mondo dello spettacolo grazie allo zio Dick, ballerino di tip tap, e all’età di 13 anni inizia a cantare nei ristoranti del Queens per portare soldi in famiglia. Più tardi studierà musica e pittura alla New York’s School of Industrial Art. Torna scosso dalla guerra, in Francia e Germania, dove ha combattuto ma ha anche cantato per i soldati, e ricomincia a intrattenere il pubblico come Joe Bari, pseudonimo usato già prima di partire per il fronte. Nel 1949, l’attrice e cantante Pearl Bailey lo vuole come opening act dei suoi concerti al Greenwich Village, dove è notato dal comico Bob Hope, che lo porta con sé in tour e gli cambia il nome in Tony Bennett. L’incisione di una demo di ‘Boulevard of Broken Dreams’ gli vale un contratto con la Columbia Records.
‘Penso che una delle ragioni per cui sono popolare è perché sto ancora indossando una cravatta’
‘La vita è un dono, anche con l'Alzheimer’
È l’agosto 2021. Danny Bennett, figlio e manager, ha appena annunciato il ritiro dalle scene del padre, malato di Alzheimer. A Danny, a metà anni Ottanta, si deve il ritorno di un ormai demodé Tony Bennett dopo un lungo momento di impasse fatto di crisi coniugali e droga (un’overdose di cocaina, nel 1979, quasi lo uccide). I due album con il pianista Bill Evans, occasione di rilancio, non erano serviti a ridargli un contratto discografico. Danny, insieme all’altro fratello Dae, ‘ricostruisce’ il padre, smontandone l’immagine decadentemente ‘Vegas’ e ridandogli piena dignità. L’album ‘The Art of Excellence’ esce nel 1986 e segna il ritorno alla Columbia Records. Un ritorno in grande stile. Fioccano i Grammy, le apparizioni televisive, i concerti e Tony Bennett diventa un sempreverde. Duetta con tutti i grandi della Terra, decisamente più giovani di lui, in ‘Playin’ with My Friends: Bennett Sings the Blues’, per esempio, ma soprattutto nei due ‘Duets’, nel 2006 e 2011, l'anno di ‘Body and Soul’, con Amy Winehouse.
‘Quel che la gente non sa è che lei sapeva. Sapeva di essere in un sacco di guai e che non stava vivendo. La droga non c'entra. Non si faceva più. Era la vita che non c'era’
Il successo di Bennett durerà fino ai duetti con Lady Gaga, che sarà con lui, già ultranovantenne, nell’agosto del 2021, nello storico Radio City Music Hall per l’ultimo suo concerto, intitolato ‘One Last Time: An Evening with Tony Bennett and Lady Gaga’, atto conclusivo di una collaborazione intergenerazionale e di una carriera settantennale, quella di colui il quale – almeno dalla dipartita del suo idolo giovanile, Frank Sinatra, e dagli addii di Dean Martin e Perry Como – è stato definito l’ultimo dei grandi crooner americani. Dopo cento album incisi e cinquanta milioni di dischi venduti, nel dicembre dello stesso anno, la tv americana trasmette la sua ultima performance televisiva, sempre con Lady Gaga e con duetti dagli album che li vedono insieme, ‘Love for Sale’ (2021) e ‘Cheek to Cheek’ (2014). Di ‘One Last Time’, ancora si attende ‘The Lady and the Legend’, il documentario nel quale si viene a sapere che Bennett, malgrado l’Alzheimer, provava tre volte a settimana insieme al suo direttore musicale.
“Mi diverto un sacco con Tony Bennett, perché canta ‘New York State of Mind’ meglio di chiunque altro, me incluso” (Billy Joel)
La storia di Tony Bennett ci riporta sempre al Queens. Il 3 agosto del 2021, nel giorno del suo 75esimo compleanno – parafrasando il Cole Porter di ‘I get a kick out of you’, che tutti i crooner, da Sinatra a Jamie Callum (Bennett incluso) hanno cantato – Billy Joel twittava “I get a kick out of Tony Bennett”, più o meno “mi diverto un sacco con Tony Bennett, perché canta ‘New York State of Mind’ meglio di chiunque altro, me incluso”. Il pianista di Long Island teneva particolarmente a quel duetto, andato in scena per la prima volta nel 2002, durante i 44esimi Grammy Award, e replicato nel suo doppio concerto allo Shea Stadium, nel Queens, luglio 2008, finito in dvd: “Ladies and gentlemen: Tony Bennett!”, esclama il pianoman dopo la prima strofa, aprendo al più anziano collega. Visibilmente orgoglioso, Billy canta con gli occhi fissi sul crooner, gli ‘lancia’ ogni entrata con un ‘Tony!’ e il crooner mette i suoi, di occhi, fissi sul sax di Mark Rivera, e applaude uno dei ‘solo’ che hanno fatto la storia di New York, non meno della canzone che lo contiene, nata su di un bus che viaggiava lungo l’Hudson.
Tempio del baseball così come lo Yankee Stadium, demolito nel 2009, lo Shea Stadium venne raso al suolo due giorni dopo quel duetto. E se, oltre al vivente Billy Joel, ancora una colonna di quel monumento sportivo era rimasta in piedi, ora non c’è più. “Quando ero un giovane studente del Queens – twittava Bennet lo scorso marzo, dando il suo contributo alla no-profit Exploring The Arts – non ero sicuro di essere tagliato per una carriera musicale. Andai dal mio insegnante, il Signor Sondberg, e gli dissi che stavo pensando di mollare. Ma lui mi diede il miglior consiglio, che ho portato con me in tutti questi anni: ‘Continua a farlo, e non smettere di cantare’. Aveva ragione. Quindi il mio consiglio è questo: anche se non accade al primo giro, continuate. Non potete sapere dove la cosa vi porterà. Come mi disse una volta Duke Ellington: ‘La vita ha due regole: regola 1, non mollare mai; regola 2, ricordatevi sempre la regola 1’”.