‘Il mio è un cinema del quotidiano’. A colloquio con il regista Tsai Ming-liang che domani, in Piazza, verrà omaggiato per il suo lavoro trentennale
«Quando ero bambino, dalla città, sono stato trasferito in una scuola in campagna. Là, non so in che maniera, offesi un mio compagno di classe, che disse agli altri di non parlarmi per un anno. Così fecero. Fu in quel frangente, credo, che iniziai a riflettere sullo stare da soli». Il regista Tsai Ming-liang, nel contesto di una minuta tavola rotonda, ricorda un’esperienza della sua infanzia che in qualche modo deve aver segnato la sua sensibilità e di riflesso la ricerca espressiva che, a distanza di anni, ha sviluppato nei suoi film, carichi di quello “stare da soli”.
A lui, la 76esima edizione del Festival ha assegnato il Pardo alla carriera Ascona-Locarno Turismo, che gli verrà consegnato durante la cerimonia che si svolgerà domani in Piazza Grande. L’omaggio darà altresì l’occasione al pubblico di assistere alla proiezione di una delle sue opere più recenti: ‘Rizi’ (tradotto: ‘Days’), sempre domenica, ma alle 17 al GrandRex. Il regista, fra le figure fondamentali della seconda ondata del nuovo cinema di Taiwan, da anni lavora anche a opere d’arte e a compendio della sua ampia produzione verrà inaugurata oggi, alle 18, una mostra alla galleria il Rivellino (visitabile per la durata del Festival) che propone ‘Transformation’ (2012), ‘Ni de lian’ (2018) e la performance ‘The Tree’ (2021). Le sue installazioni audiovisive, le ‘Walking Series’ in particolare, verranno proiettate l’anno prossimo a Ginevra. Il Pardo alla carriera di quest’anno ha altresì partecipato (lo scorso 3 agosto al Forum@Spazio Cinema) a una conversazione sul futuro del cinema moderata da Kevin B. Lee (Locarno Film Festival Professor for the Future and the Visual Art all’Università della Svizzera italiana). Tornando indietro nel tempo, aggiungiamo ancora che, in occasione della 58esima edizione del Festival, il regista malese naturalizzato taiwanese era parte della giuria del Concorso internazionale.
Nato il 27 ottobre 1957 in Malesia, a vent’anni si trasferisce a Taiwan, dove studia teatro e cinema alla Chinese Culture University di Taipei, laureandosi nel 1982. Il lavoro di scrittura risale agli inizi degli anni Ottanta, mentre a cavallo dei Novanta lavora alla sceneggiatura di una decina di film per la televisione, dirigendone la maggior parte. L’esordio nel cinema arriva nel 1992 con ‘Rebels of the Neon God’: è l’inizio di una carriera trentennale che ha raccolto finora diversi riconoscimenti e partecipazioni a festival internazionali. Sin dai primi film, Ming-liang lavora con l’attore feticcio Lee Kang-sheng, che appare nella totalità della sua filmografia, un sodalizio artistico che dura da un trentennio. Per il resto della filmografia si rimanda al box nella foto.
Box: la sua filmografia
Nel cinema di Tsai Ming-liang, lo dichiarava il direttore artistico del Festival Giona A. Nazzaro, “lo spleen urbano delle metropoli postmoderne ha trovato nuovi accenti” che cadenzano una sintassi cinematografica minimalista che racconta, attraverso un uso ridotto all’osso dei dialoghi e con inquadrature statiche e spoglie (cifre stilistiche che denotano il suo personale modo di fare cinema), una quotidianità fatta di solitudine e isolamento, smarrimento, precarietà e alienazione.
Il regista, lo si legge in più contributi, è definito il maestro del cinema lento, un’etichetta che in parte confuta affermando che i ritmi dei suoi film sono quelli «della quotidianità. Ciò che voglio mostrare è l’autenticità. I ritmi dei miei film non sono quelli delle performance, ma è il passo della vita, i cui elementi riempiono i miei lavori, come camminare, dormire, stare da soli… penso che siano questi a dare la sensazione di lentezza», chiosa. I dialoghi scarni, poi, non sono affatto una scelta per semplificazione, anzi tutt’altro: «Non si tratta di una questione di facilità o difficoltà – spiega –, ma di concetto. Sono una persona silenziosa e lavoro quindi seguendo ciò che sono nella vita reale», ribadisce sottolineando che tutto ciò che fa è basato, ispirato ai suoi sentimenti.
© Claude Wang
In contrasto con le produzioni mainstream che mirano all’intrattenimento e soprattutto alla commercializzazione del grande schermo, il cinema di Tsai Ming-liang impone al pubblico di fermarsi a guardare (intensamente) e vivere le immagini che scorrono lente sul telo per assimilarne tempi, soprattutto emozioni e sentimenti, con un importante carico di memoria; rimuginando su una condizione umana – ci permettiamo – misera e struggente.
Da diversi anni, Ming-liang si dedica anche alla sperimentazione artistica realizzando installazioni audiovisive, rimanendo fedele al medium. Il confine fra opera cinematografica e opera artistica allora ci pare di capire stia nel luogo di fruizione, sottolineando come il museo sia un importante spazio di apprendimento ed educazione all’immagine, affinché ci sia un sostrato culturale che sostenga anche la frequentazione del cinema, al di là dei titoli altamente commercializzati. «La mia posizione è particolare, faccio film personali che per fortuna trovano sostegno finanziario, ma credo che siano meno visti delle mie opere d’arte. Devo guardare in faccia alla realtà, poca gente guarda i miei film, nonostante sia molto famoso», dice con ironia.
Infine, il discorso cade sulla questione della censura. Nel 2006, ‘I dont’ want to sleep alone’ è stato proibito in Malesia (luogo delle riprese) a causa di alcune scene che, a detta del governo malese, ledono l’immagine della nazione. In merito, il regista chiarisce quindi che ha deciso di tagliare le scene “incriminate” affinché il film potesse passare nelle sale cinema del suo Paese d’origine, con, ben visibile, la dicitura “questo film è stato censurato” cosicché la gente sapesse e si ponesse delle domande.