La rubrica chiude con questa uscita dedicata ai protagonisti palesi o dissimulati: Sciascia e Tobagi, l'ex soldato e poi poeta Bruce Weigl, Lily & Margot
La rubrica chiude, con questa quattordicesima uscita. Due volte sette, numero pieno di simboli quindi va bene così. La dedico ai protagonisti dell'uscita di oggi non solo per brevità. Protagonisti palesi o dissimulati: Sciascia e Tobagi, l'ex soldato e poi poeta Bruce Weigl, Lily & Margot. E a chi legge, specialmente, se gli ha suscitato, in questo anno e qualche mese, un pensiero o un sorriso.
Onorevoli. Sciascia tra i Settanta e gli Ottanta andava mandando pensieri al ‘Corriere della Sera’ – sotto il titolo ‘Nero su nero’ – forse vanamente, visto quel che succede quarant'anni dopo, ma è presto per giudicare. Conoscendo l'autore si intuiscono i temi. Ma sono tanti in fondo, anche se politica, società, giustizia sono i prevalenti. Copio qui una delle note. "Appena agganciata la cintura, l'onorevole svolge un grosso rotolo di giornali, ne estrae, con manifesta predilezione, ‘Le Monde’; lo sfoglia velocemente, lo richiude, comincia a leggerlo dalla prima pagina. Ma l'aereo si muove ancora sulla pista, che l'onorevole non ce la fa più: solleva lo sguardo, lo volge a sinistra e poi a destra. Quel che avviene nel suo occhio mi fa ricordare una battuta di Carrieri: ‘La scrittura di... entra nell'occhio, poi bisogna andare dall'oculista’. Una mezza colonna di ‘Le Monde’ è entrata nell'occhio dell'onorevole e non è andata oltre: sta incastrata lì, plumbea, dura, puntata di accenti gravi, acuti, circonflessi. Un momento di disperazione, di panico. Poi l'onorevole annaspa tra i giornali che tiene sulle ginocchia, tira fuori quello del suo partito, si immerge nell'articolo di fondo come in un alveo d'amore. Non vedo più i suoi occhi, ma mi è facile immaginare che la mezza colonna di ‘Le Monde’ si stia sciogliendo nel calore materno, sicuro, inalterabile, del ‘fondo’ scritto da un altro onorevole."
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Song of Napalm. Che cos‘è la guerra non lo sappiamo. Eppure lo sappiamo perché la fuggiamo, nella tv, nei giornali. Ancora più nei nostri discorsi, che ci trovano con parole scarse. Un singolare servizio preparava i commenti notturni, l'altra sera. A non saperle bombe, era come un ben confezionato video musicale. Scintille rosse che tracciano una parabola nel buio, dolcemente. La musica giusta. Una buona chiusura, coerente col resto. La guerra può essere tutto, molte cose secondo i casi. Molte in uno stesso caso. Negli Stati Uniti quella del Vietnam è una questione aperta che fa nascere romanzi, saggi, poesie. E Bruce Weigl quando ce lo mandarono aveva 18 anni. Fu assegnato alle comunicazioni tra i comandi e il fronte e si aspettava di assistere a scontri fra militari, gli avevano detto. Vide invece quel che è, per costituzione, ogni guerra, anche se ci stupisce ogni volta. Distruzione sistematica di città intere con tutte le vite di quella città. Puoi imbatterti in un gruppo di soldati, certo. Poi torni al vero obiettivo: i civili (eufemismo) e tutto quanto circonda le loro vite, tutto ciò che le rende vite. Casa, strada, scuola, negozio, ospedale. "Per uccidere una persona bombardano una città intera", dice Weigl in un'intervista al País. Quando tornò a casa, curò le sue ferite con spaventi notturni e pianto, sedute e medicinali, poi nacquero i versi. Come il rovescio diurno dei notturni incubi, che durarono cinquant'anni o durano ancora. Gli editori non li volevano. Finché un giorno, vent'anni dopo, uno di essi li volle. Uscì la raccolta che intitolò Song of Napalm. Scene di morte e vite mutilate, ma anche momenti della vita che continua. Era tornato in Vietnam poco prima, nel 1985, quando cominciò la seconda vita che aveva il suo centro incandescente nella prima. Conosce e sposa una donna vietnamita e adottano una bambina. Apprende la lingua a fondo, inizia a tradurre letteratura di quel paese nella lingua propria. La guerra gli ha propiziato la poesia o la poesia l'ha salvato dalla guerra? Forse avrebbe avuto lo stesso un destino di poeta. Ma non è il male a produrre, travolgendo tutto, nel tutto anche il bene. È la vita che vuol rinascere. La vita che medica se stessa, che ricomincia a tessere quello che la guerra distrugge. Il bene che affronta il male con gli strumenti che conosce - in questo caso, parole ordinate in un ritmo, da scrivere e leggere lentamente, - e lo annulla.
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Lily & Margot. Forse è una buona notizia, forse no. O le due cose insieme. Il mondo è stato messo nelle condizioni di considerarla una buona notizia da un paio di secoli a questa parte, dalla nascita degli zoo e proprio con quello di Londra. Due pappagalli nati e vissuti in cattività fuori dalla cattività non sanno vivere. E l'accaduto si può dividere in due parti. Nella prima Lily e Margot, due "blue-throated macaw", vale a dire due ara gola blu, sono scappate dallo zoo di Londra; nella seconda sono state ritrovate in un giardino privato di Buckden, nel Cambridgeshire, a sessanta miglia di distanza. Avvistate la penultima volta 5 minuti più su, a Brampton, sono volate via fino a Buckden. Era andata che, uscite dalla voliera per "their usual routine of flying freely", avevano deciso di non rientrare. La loro fuga o il loro viaggio, o le peregrinazioni per cercare di tornare a casa, chi sa, si sono protratti per sei giorni.
Bella la fuga e meno male che le hanno ritrovate. Mettiamola così.
D'altra parte le cose sono piuttosto mescolate o sfumate ancora oggi. Catturare animali "per fini scientifici", beneficia ancora anche loro, gli stessi animali? La specie, forse, se non i pochi malcapitati esemplari? Mescolatissime le cose erano allora, a metà Ottocento, e poi per un bel pezzo. Gerald Durrel, naturalista e scrittore, che gli animali li amava tutti, li catturava anche, in Africa, per l'attivissimo zoo di Londra.
L'ara gola blu ha blu anche il capo, il dorso e le ali. Il resto è giallo tuorlo d'uovo. Vive quasi esclusivamente nel nord della Bolivia ed è depositario, anche lui, del mistero che si trova ovunque, un po’ nascosto, e non siamo più in grado di avvertire.
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Caffeina. Mi domando in quale epoca ci troveremmo se il caffè permanesse non scoperto. Di quanto saremmo arretrati. Metà Ottocento, anche qui, o ancora più indietro? Piena epoca di treno a vapore. Sta arrivando la bicicletta (il velocipede). Né grammofono, né fonografo. Fra mezzo secolo la radio, la TV fra uno intero. Stiamo per leggere Madame Bovary, da contemporanei. Gli incontri di boxe, senza limiti di tempo, finirebbero male. Troppe malattie ancora da debellare ma questo fenomeno infausto e tipico del 900 e più ancora del 2000, l'ansia (amica del caffè), non sarebbe nemmeno neonata. O ancora poco temibile. Se si esaurissero invece fra qualche anno, per via degli stravolgimenti climatici, tutte le riserve di caffè, che accadrebbe? Rallentamento secco di ogni attività, poche idee e senza slancio, depressione generale. Poi un rimedio si trova perché si trova sempre.
Devo la riflessione a un titolista frettoloso del País. "Riserve di caffè ancora per sei settimane". La siccità in Brasile e i tifoni in Vietnam hanno rallentato e fatto più leggeri carichi e invii, mentre la domanda europea non soltanto segue costante ma cresce. Da qui l'aumento dei prezzi che non si fermerà e la riserva intaccata. Che non avremo più caffè un mese e mezzo, però, è falso.
La musa nera, lo chiamava Dossi. Per questo ci interessa la salute sua oltre che la nostra, e se fa male, se fa bene... Lo stesso giorno che il quotidiano spagnolo riferisce delle riserve dimezzate, Die Presse riporta i risultati di un'indagine. Per quale ragione uno che ha preso un caffè dopo pranzo, non dorme? E perché un altro che ha preso il quinto dopocena dorme? Se lo chiede un team di ricercatori dell'Università di (qui un nome ininfluente), concludendo che la ragione è genetica. Come ci siano arrivati è un discorso un po' tecnico che si dimentica, parola per parola, mentre lo leggiamo. Prima del nome dell'università.
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Via Walter Tobagi. Vorrei ricordare le parole esatte con cui quella signora, nostra vicina di panchina, aveva reclamato al comune l'installazione di quella stessa panchina. Che prima c'era ma l'avevano tolta, con le altre. Telefonò tutti i giorni al comune finché vinse lei, assicurando alla sua vecchiaia l'ora di vita sociale al giorno che le avevano divelto. Nel quartiere Vallcarca di Barcellona, della panchina di legno collocata dai cittadini alla fermata di un autobus le autorità colsero la sola parte di rimprovero. Ci restarono male e la fecero togliere. Sicché in quegli stessi paraggi, dieci centimetri al di qua del suolo pubblico, spunta una pensilina tutta di legno salvo il rivestimento della copertura, breve pendenza laterale nel tetto, e sotto la protettissima panchina, per aspettare l'87 al riparo da sole, pioggia e multe disonoranti per chi le decide. El Periodico fa la breve cronaca della vicenda e il resto si intuisce. Basta pensare a un gruppetto di volenterosi con un quartiere intero alle spalle; agli imbarazzanti pretesti di un municipio simili a quelli, in circostanze simili, di tutti gli altri; all'invio prevedibile di quattro agenti che non possono far nulla. Due dei quattro assumono una delle posture possibili di chi ha niente da fare: mani allacciate dietro la schiena.
Penso al finale della nota camminando. Alzo gli occhi curioso di conoscere il nome di questa bella via di edifici bassi e giardini, e leggo, su un cartello applicato a una rete di recinzione, Via del Marciapiede Rotto. Mi giro in cerca del nome ufficiale: Via Walter Tobagi. Mi volto di nuovo e vedo un marciapiede in stato pietoso fin dove arriva lo sguardo. Nella mia città amano aggiungere, al nome attuale delle vie, il precedente. Bel vezzo o pedanteria che ha il suo perno nel "già". La mia preferita è Piazza dell'Indipendenza già Piazza delle Scarpe. Perché le piazze dell'Indipendenza (o della Libertà) non ridiventino "delle Scarpe" dalla sera alla mattina, è necessario piantare alberi, panchine, pensiline, chioschi, cestini, fontane. Ognuno di questi trapianti ci sarà utile come fossero tutti alberi, perché l'esercizio della libertà ossigena.