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Soglie e tensioni in Nicola Lagioia

Brevi note sui romanzi dello scrittore italiano dopo l’incontro avvenuto durante l'ultima edizione del Festival Sconfinare

Premio Strega nel 2015
(Wikipedia/Actualitté)
15 novembre 2024
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Ogni scrittore, anche quello dall’opera complessiva più coerente e monolitica, varca una soglia passando da un libro al successivo. Scrivere qualcosa di nuovo significa sempre esporsi all’ignoto, infrangere il perimetro rassicurante del già detto per costruirne uno che ancora non c’è, a sua volta internamente mosso da conflitti e forze in tensione (che negli esiti migliori non trovano una sistemazione pacificante, ma questo aprirebbe a un altro discorso ancora). Ciò vale anche per Nicola Lagioia e per i suoi romanzi, sui quali provo a tornare in queste brevi note dopo l’incontro con l’autore nell’ultimo ‘Sconfinare’.

L’esordio dei Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) - che esce per minimum fax nel 2001 - costituisce con i suoi rispecchiamenti interni, con il suo sguardo deformante e ironico, una riflessione sulle potenzialità della letteratura e del racconto. E basterà allora ricordare la frase che il protagonista rivolge a un Tolstoj seduto al tavolino di un bar romano (“Ti ostini a progettare i tuoi romanzi come se fossero enormi cattedrali lanciate verso l’alto. La letteratura come progetto è finita. Cerca di fartene una ragione”) per evidenziare la conflittualità grottesca che attraversa l’intero libro, peraltro già programmaticamente fissata dal titolo.

È un’indagine che Lagioia conduce in modo maggiormente consapevole tre anni più tardi con Occidente per principianti, di certo il suo libro più metaletterario – e che non a caso resta anche il più amato dai critici. La rocambolesca ricerca della prima amante di Rodolfo Valentino da parte di tre personaggi – su e giù per l’Italia, in un vero e proprio road movie – è raccontata attraverso tecniche che ne fanno uno dei romanzi più consapevolmente postmoderni apparsi nel panorama italiano: montaggio sincopato; personaggi dai nomi fittizi, narrati due volte (dal libro e, allo stesso tempo, dal film che uno di essi sta girando su di loro) e che hanno un brivido quando si riconoscono “come esseri umani” e non più solo come attori in scena. Insomma, a Lagioia sembra qui soprattutto interessare il rapporto tra realtà e discorso sulla realtà, in particolare nell’ambito dell’informazione mediatica: “Le notizie, bisognava domandarsi, seguivano un circuito chiuso o avevano a che fare in qualche modo con il mondo? Dovevamo considerarle come il prodotto dei fatti che accadevano oppure si trattava di entità autonome, indipendenti, magari anche striscianti, in qualche modo vive?”. Significativa appare poi la datazione della vicenda: l’estate del 2001, tra il G8 di Genova e il crollo delle Torri, su cui il romanzo si chiude. Eppure, la Storia brilla solo a intermittenza, fatica a insinuarsi nelle piccole vicende dei personaggi, come emblematicamente mostra la scena del trio protagonista chiuso nell’abitacolo dell’automobile in viaggio verso Milano: sul sedile posteriore, un giornale che rende conto di un autobus che in Germania precipita da un viadotto sfondando il tetto di una fabbrica; la radio che annuncia tensioni crescenti tra India e Pakistan. La riflessione sulla possibilità di dire il Mondo, il dilemma sull’esistenza stessa della realtà al di fuori del discorso, l’idea per cui tutto è già stato raccontato - e quindi che sia possibile solo riassemblare (più o meno ironicamente) il già detto - trova nella conclusione una soluzione che, pur restando aperta e problematica, vede tuttavia la Storia riaffermarsi con il suo carico di imprevedibilità.

Devono passare cinque anni prima che Lagioia approdi a una forma narrativa più usuale e meno sperimentale, per certi versi più “autobiografica” (evidenzio le virgolette). Riportando tutto a casa è – ho già avuto modo di scriverlo – uno dei romanzi italiani più definitivi sugli anni Ottanta del secolo scorso, capace - attraverso la descrizione delle dinamiche del microcosmo barese - di intercettare i cambiamenti e i punti di non ritorno di un intero paese (e del mondo tutto): il berlusconismo, la strage dell’Heysel e il racconto televisivo che ne viene fatto (Bruno Pizzul che continua, benché sommessamente, la telecronaca, mentre la tv tedesca sospende la diretta), le prime campagne contro l’HIV, la caduta dello Space Shuttle, il disastro di Cernobyl, il crollo del blocco sovietico. Il romanzo indaga il passaggio fulminante dalla povertà alla nuova ricchezza di tre o quattro famiglie di Bari, e soprattutto le trasformazioni valoriali che ne conseguono. Così, per il giovane protagonista, niente più collegio esclusivo all’estero: il successo, economico e sociale, percorre altre strade (“Enrico Fermi, Indro Montanelli… tutti venuti fuori dalla scuola pubblica, confermava papà guardando la punta della Marlboro dopo un lungo tiro”). Nel 2014, dopo ulteriori cinque anni, il dittico barese si completa con La ferocia (noto marginalmente come Lagioia vinca lo Strega con il suo romanzo più divisivo). Ormai la ricchezza è acquisita, conta la lotta feroce per mantenerla. Anche qui – ed è questione che attraversa quasi tutti i libri dell’autore – ecco allora un personaggio che tenta di ricostruire il (proprio) passato per dare senso alle macerie del presente. Una ricerca destinata a un almeno parziale scacco, reso formalmente anche dalla scelta di raccontare le stesse scene da punti di vista distinti e di affidarsi per la prima volta alla narrazione in terza persona.

Interstizi

Nel 2020 (Lagioia pubblica un romanzo mediamente ogni cinque anni, cioè solo quando ha qualcosa di importante da dire) esce La città dei vivi, che per certi versi può essere considerato un provvisorio punto di arrivo, capace di sintetizzare e insieme di radicalizzare molti elementi dei libri precedenti. Non più una storia inventata che parla (anche) di giornalisti, bensì una storia vera che dapprima hanno raccontato i giornalisti e che l’autore sceglie di ri-raccontare attraverso la forma romanzo, l’unica capace di indagare gli interstizi forse insignificanti a fini investigativi ma indispensabili per illuminare le zone più nascoste del Mondo. Il dramma del Collatino apre al territorio di una violenza inusitata: “Un ragazzo veniva attirato in un appartamento da altri due ragazzi e ne usciva morto. Era possibile imputare classicamente questo crimine ai due ragazzi – con tutto il corredo di colpa e punizione – o bisognava arrendersi al pensiero di essere entrati in un tempo e in un mondo completamente nuovi, dove questi concetti non valevano più niente?”. E a essere investito da tanta brutalità (e dalle responsabilità etiche ed estetiche per raccontarla) è in primis il personaggio-narratore-autore Nicola Lagioia: “Fu allora che pensai che dovevo staccarmi dal caso. Dovevo mollare la presa, era tempo di farlo, il mio bisogno di capire era diventato una dipendenza e adesso rischiavo di soccombere”. Ancora, a proposito di soglie: dove finiscono le responsabilità individuali degli assassini e iniziano i condizionamenti esterni? Qual è il confine tra sfera privata e sfera pubblica che gli stessi personaggi decidono di varcare? Come avviene la costruzione della loro immagine pubblica? Basti a questo proposito ricordare che la maggiore preoccupazione di Manuel Foffo non sarà il fatto che tutti sappiano che è un assassino ma che tutti credano che sia omosessuale per aver avuto un rapporto con Marco Prato.

Né mi pare del tutto irrilevante – per tornare ad abbracciare i cinque romanzi nella loro complessità e chiudere con un suggerimento – tentare di capire come evolvano e vengano rappresentati temi e figure trasversali all’autore: i padri, così ingombranti; la droga, così ossessivamente presente; il sesso, così cautamente descritto.

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