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Juan Filloy, il più noto degli ignoti

Ha fumato sigari con Hemingway, scambiato corrispondenza con Freud, s'è incrociato con Borges. Esce ‘Op Oloop’, primo libro per un pubblico italofono

Fu anche nuotatore e arbitro di boxe
27 settembre 2024
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Lo hanno chiamato “Don Giovanni delle sette lettere”, oppure “lo scrittore ignoto più noto”. Il suo vero nome, Juan Filloy, che in Italia è ancora pressoché sconosciuto, ha cominciato a farsi largo nel mondo della letteratura argentina negli anni Sessanta, quando erano ormai trent’anni però che scriveva, e nel mentre viveva una vita così intensa da sembrare fossero tre, tutte insieme. È stato avvocato e magistrato, fondamentalmente. E poi co-fondatore del Talleres de Córdoba, club iconico del calcio argentino, fervente nuotatore, arbitro di boxe – in un incontro, nientemeno, in cui sul ring c’era Luis Ángel Firpo, quello del combattimento del secolo con Jack Dempsey. Ha intrapreso una corrispondenza, negli anni Trenta, con Sigmund Freud. Nella Cuba degli anni Sessanta ha fumato sigari con Ernest Hemingway. Infine, soprattutto, è stato prolifico autore di più di cinquanta libri, ispirato inventore di neologismi, impallinato della palindromia (si definiva «campione del mondo dei palindromi»). Il suo motto era nulla dies sine linea. «Se la letteratura mi desse soddisfazione», diceva, «non scriverei. Io invece scrivo per essere continuamente insoddisfatto, e per cercare la perfezione».

Il risultato? Una produzione mostruosa, complessa, verborragica, ma anche in anticipo sui tempi, in qualche modo visionaria. Il suo stile, personalissimo e ambizioso, abbracciava tutti i generi. Oggi lo diremmo – per il suo scandagliare le possibilità letterarie della coprolalia – parente di Henry Miller o di Charles Bukowski. Ma in Filloy ci sono anticipazioni di quello che diventerà la critica cinematografica (in Yo, yo y yo c’è un saggio su Walt Disney che anticipa di anni ‘Come leggere Paperino’ di Ariel Dorfman), una critica ante-litteram alla dittatura argentina inaugurata nel 1976 (Vil y vil è del 1975, e gli costerà lunghi interrogatori, sequestro delle copie, una dolorosa ostracizzazione), personaggi protofemministi – che hanno l’ardire di mettere in mostra la clitoride o il flusso mestruale – e dichiaratamente omosessuali. E una memorabile scena sulla teorizzazione della mancia che anticipa quella de Le iene di Quentin Tarantino. La sua opera è un infinito esercizio di realismo allusivo, pieno di ironia: la messinscena della commedia umana. E a Filloy va il merito di averne riconosciuto, non foss’altro, la ricorsività quel tanto che bastava per sembrare fosse piombato dal futuro. Una specie di Honoré de Balzac porteño, con uno sguardo acuto capace di catturare l’intera società argentina del Ventesimo secolo, quel Noveciento cambalache problématico y febril, come cantava Discepolo in un celebre tango.

Rio Cuarto, sierra cordobese

Ha vissuto a cavallo di tre secoli, Juan Filloy, incarnandoli: è nato a Córdoba sul finire del Diciannovesimo secolo e ci è morto all’alba del Terzo millennio. Nel mezzo ha vissuto praticamente tutta la vita a Rio Cuarto, nella sierra cordobese. Il suo rifugio, l’arcadia, la torre d’avorio dalla quale poteva dispensare la letteratura che sentiva – che era – solo sua. Odiava le città tentacolari come Buenos Aires, diceva, perché sono un abominio. Preferiva vivere in provincia, «incarnito come un mollusco».

A Rio Cuarto stampava i suoi libri in edizione privata, come piaceva dire a lui “hors commerce”, o “edicta amicorum”. Era così raffinato – e cosciente della sua raffinatezza –, Juan Filloy, così dandy e così elitario da riconoscere che i suoi libri non potessero circolare diversamente. C’entrava anche la sua professione di giudice e avvocato, ovviamente: la predisposizione a un linguaggio non proprio coerente con il suo status sociale lo aveva convinto a relegarsi al margine, a farsi scrittore clandestino, che pubblicava non più di qualche centinaio di copie e selezionava scrupolosamente i suoi lettori. Un vezzo che lo avrebbe reso famoso nel sottoterra, e avrebbe rafforzato il suo mito.

In 500 esemplari, nel febbraio del ’35, è stato stampato anche Op Oloop, che oggi – coraggiosamente, ma con grande cognizione dell’importanza ricoperta da Filloy nella letteratura argentina – viene portato in Italia da Ago edizioni, a trent’anni dalla prima traduzione in una lingua che non fosse il castigliano (a spalancare le prime porte fu l’Olanda, grazie alla traduzione di Mempo Giardinelli). Un libro, Op Oloop, ispirato dal surrealismo europeo, avanguardista, moderno, lontano dai trend letterari che imperversavano in quegli anni in Argentina, precursore – per genio, umorismo e inventiva – degli Oulipo. Op Oloop è il racconto di una giornata dello statista finlandese omonimo al titolo (in realtà si chiamerebbe Optimus Oloop), uomo metodico fino all’ossessione, che proprio in limine a un importante banchetto organizzato per celebrare qualcosa di importantissimo rovina fragorosamente – e cerebralmente – dal momento in cui si imbatte in un ostacolo imprevisto. La presenza di continui rimandi alla prostituzione, all’amore carnale e alla sfera degli istinti hanno fatto sì che Op Oloop venisse definita novella erotica. Op Oloop, però, è molto di più: è un capolavoro di retorica chamuyera (cioè prolissa e ridondante ai limiti dell’inconcludenza) in cui si mescolano registri volgari a prose preziosiste, e in cui il modello imperante dell’epoca (legato all’ordine familiare borghese e alla morale cattolica) viene sottoposto ai colpi di piccone dell’istinto.

Nonostante sia stato avvicinato all’Ulysses di James Joyce (che Filloy dichiara di aver letto senza amarlo, anzi di averlo trovato noioso fino a soprannominarlo Durises), forse l’antecedente più vicino a Op Oloop è Buenos Aires, le strade del vizio di Albert Londres, un memoir che si occupa della tratta delle bianche degli anni Trenta e dipinge Buenos Aires come “il paradiso dei ruffiani”. Op Oloop potrebbe esserne un’ideale risposta, in cui Filloy – la cui visione del mondo era caleidoscopica, influenzata da una morale borghese ma allo stesso tempo progressista e non priva di un certo spirito da agent provocateur – dipinge la prostituzione come una forma, in qualche modo, di elevazione tanto per chi la pratica che per chi ne fruisce. “Cosa può avere di vituperabile l’industria che forgia l’illusione dell’amore?”, aveva scritto nel suo primo libro, Periplo. “Quel che per la morale è male, per l’istinto è bene”, diceva.

In Op Oloop fa pronunciare a uno dei suoi personaggi, Gastón Marietti, professione macrò, frasi potenti per l’Argentina degli anni Trenta: “Dietro ogni meretrice si nasconde una donna delusa”. “Noi macrò sfruttiamo sempre il disincanto delle donne deluse, e ci amano per questo, ci amano alla maniera di Maria Maddalena. Gesù, in una certa misura, è stato un nostro precursore”.

Leggenda

Schietto, provocatorio, con sempre in canna un colpo di condanna per i modelli restrittivi esacerbati dai governi militari – e ne ha visti, nell’arco della sua vita –, Filloy ha finito per trovarsi – per questo, o come protezione da questo – ignorato, marginalizzato; e in quanto tale, chissà, si è fatto mitico, leggendario.

Juan Filloy è stato scrittore, in primis, colto. Solo dopo è diventato scrittore di culto, e occulto.

Si è incrociato a più riprese con Jorge Luis Borges: anche se la storia più celebre che circola sul loro conto sembra non sia vera (Filloy trova sulla bancarella di un boquiniste bonaerense una delle sue copie fuori commercio, nel frontespizio c’è la sua dedica con stima a Borges: Filloy acquista il libro e lo reinvia al poeta scrivendo con rinnovata stima), c’è invece un aneddoto forse ancora più significativo: si incontrano a Rio Cuarto, durante un evento letterario. Borges gli confessa di averlo letto troppo poco. Filloy risponde: “Io, invece, semplicemente troppo”. Del collega, Filloy scriveva che i suoi racconti cerebrali erano perfetti, ma anche che gli mancasse “la strada”, il “quilombo”, il casino.

Era stato barocco quando nessuno parlava di barocchismo nella letteratura sudamericana. E poi era ironico. Julio Cortázar lo adorava, diceva di lui “un escritor de la madonna”, ne teneva una foto sulla scrivania di Rue St. Honoré, insieme a una di Keats e una di Borges. Lo cita ne Il giro del giorno in ottanta mondi (“l’umorismo è all pervading o non è, come hanno sempre saputo Juan Filloy, Shakespeare e Max Ernst”) ma soprattutto in Rayuela, nel capitolo 108, quando si mette nei panni di Horacio e cerca di spiegare l’importanza di Caterva (forse il libro più significativo di Filloy) alla Maga.

Chissà che non sia proprio in omaggio a Filloy che le lettere del titolo di Rayuela (e anche della sua forma embrionale, Mandela) fossero sette. Come i peccati capitali, come le virtù. Perché un’altra fissazione di Filloy era quella di ideare solo titoli che fossero di sette lettere: “Perché sono facili da ricordare”, si schermiva, “e perché rispettano l’aritmosofia, che studia il simbolismo dei numeri”, aggiungeva più serio.

Non solo le lettere del titolo, ma anche i personaggi (i partecipanti al banchetto di Op Oloop? Sette, ovviamente), i racconti delle raccolte (7 o multipli di 7): tutto risponde a un criterio di relatività con il numero sette, addirittura gli anni di silenzio imposti tra la prima parte della sua carriera e la seconda: ventotto anni. In mezzo, tanta scrittura ma nessuna pubblicazione, proprio quando la sua carriera giuridica era all’apice.

Colto, culto, occulto. Ma anche, in fondo, estremamente tradizionalista.

Dalla sua Rio Cuarto Juan Filloy ha scritto di città e mondi lontani, e di personaggi sempre al margine, con i quali ha cercato di immedesimarsi più che giudicarli moralmente. Il delinquente truffatore di Estafen, i flâneurs senzatetto di Caterva, il puttaniere Op Oloop: tutti padroni di una marginalità elegante, profonda, estetizzante più che estetizzata. Come in fondo era Juan Filloy, Don Giovanni delle sette lettere, “albero che cammina” come amava definirsi, dalle radici solide e una fronda ombrosa sotto la quale non ci siamo, forse, ancora riparati abbastanza.