libri

Lungo i passi di Adriano Soldini, eclettico uomo di cultura

Intervista a Simone Soldini (uno dei figli) che ha curato ‘Le strade di Adriano Soldini’ (Casagrande). ‘Uno strumento utile per indagare un’epoca intera’

1965, a tavola con Piero Bianconi, davanti a una polenta sul tagliere, probabilmente per celebrare la pubblicazione di ‘Corti e chiosi del Mendrisiotto’, un ‘quaderno’ scritto da Soldini per la collana diretta da Bianconi della Società ticinese per la conservazione delle bellezze naturali e artistiche
22 marzo 2023
|

«Questo libro non vuole essere la celebrazione di un centenario, ma uno strumento aggiuntivo, utile per indagare su un’intera epoca della cultura ticinese, prolifica e di alta qualità». A dirlo è Simone Soldini che ha curato ‘Le strade di Adriano Soldini. Scrittore e uomo di cultura nel Ticino del secondo Novecento’ (2022) edito da Casagrande.


© Adriano Soldini
‘A Gaetano Bresci’

La pubblicazione ci ha dato l’occasione per intavolare una conversazione sulla figura dell’intellettuale ticinese – «la sua storia incarna un pezzo della nostra storia» – con il figlio, che per ventitré anni è stato direttore del Museo d’arte Mendrisio. Prima di lasciargli la parola però, dedichiamo un po’ di spazio a telegrafiche notizie biografiche su Adriano. Nato a Novazzano il 21 maggio 1921, si laurea in lettere italiane all’Università di Friburgo con Paolo Arcari e Gianfranco Contini. Rientrato in Ticino, inizia la sua attività di critico letterario per la ‘Gazzetta Ticinese’ e dal 1947 insegna al Ginnasio cantonale di Lugano. Procediamo a grandi falcate: dal 1958 è docente di italiano al Liceo cantonale di Lugano; nel 1963 sarà nominato suo rettore, carica che porterà avanti fino al 1971. A distanza di due anni è nominato direttore della Biblioteca cantonale di Lugano e vi lavorerà fino alla pensione. Una sera di febbraio (era il 5), Adriano Soldini muore a Lugano nel 1989.

Partiamo dall’inizio, quando nasce questa proposta editoriale? Perché è utile?

Nel 1992, pochi anni dopo la sua scomparsa, un gruppetto di amici – Pedroli, Agliati, Bolzani – si era fatto promotore, sulla scia di un ricordo e affetto ancora ben vivi, della riedizione della prima e unica raccolta di prose scritta da Adriano Soldini, Le strade rosse; raccolta del ’51, alla quale il curatore Amleto Pedroli aveva poi aggiunto una scelta di racconti pubblicati qui e là nel corso dei decenni seguenti. Ma da allora, sulla sua figura di scrittore e studioso di un certo rilievo per il Ticino del secondo ’900 era calato il silenzio. In sintesi, la quasi totalità del suo lavoro e del suo agire non era riemersa ed era finita nell’oblio. Sentivamo come atto doveroso e utile, allargando gli orizzonti, riportarla alla luce. In fin dei conti – ci tengo a precisarlo – questo libro non vuole essere la celebrazione di un centenario, ma uno strumento aggiuntivo, utile per indagare su un’intera epoca della cultura ticinese, prolifica e di alta qualità. Perché utile? Perché in più occasioni quello avuto da Adriano Soldini è stato un ruolo chiave. Innanzitutto in virtù di quel suo peculiare tratto umano di disponibilità e apertura, capace di riunire molte voci in un progetto culturale, ma poi anche puramente in senso istituzionale: prima rettore del Liceo cantonale negli anni della contestazione, poi direttore della Biblioteca cantonale, istituto maggiore della vita culturale locale, oltre a promotore di varie iniziative nel campo dell’informazione e della pubblica educazione, sommate alle varie funzioni e cariche svolte nell’ambito di fondazioni e associazioni. Alla luce dei fatti la sua storia incarna nel modo migliore, come in pochi altri casi, un pezzo della nostra storia.

Scartabellando i suoi documenti, che cosa l’ha impressionata di più?

In verità, nonostante la quantità del suo operato sia abbastanza impressionante, non posso dire di essere stato impressionato da qualcosa. Piuttosto, l’impulso decisivo per questa iniziativa editoriale è arrivato leggendo le lettere, quel vasto epistolario che mi ha appassionato e divertito. Da lì ho preso spunto per cercare di tessere l’intera vicenda dell’uomo di cultura; proprio partendo dai rapporti di amicizia, dalle sue relazioni umane. Ma mi sono presto reso conto che la ricostruzione del suo lavoro, proprio perché così diramato, si presentava complessa. Il sostegno, la collaborazione di studiosi (Antonio Rossi, Alberto Nessi, Flavio Medici, Renato Simoni, Maria Will, Orazio Martinetti) e una buona assistenza (Gilda Bernasconi e Piero Pagliarani) mi hanno consentito di ricomporre questo suo operare, direi, polifonico: dalla letteratura alla storia, dalla critica d’arte all’impegno civile di fronte ai fatti d’attualità.

La figura di suo padre, compresa l’opera culturale e intellettuale, in che contesto si inserisce?

Il contesto è quello che ormai viene studiato e setacciato da venti e più anni per mano di studiosi di generazioni varie. È un momento straordinario, di rinnovamento e di crescita per il Ticino, a partire dagli anni ’40 fino alla fine degli anni ‘60, vuoi per più generali ragioni storiche, con l’arrivo da rifugiati di decine di intellettuali italiani, vuoi per ragioni più particolari e contingenti, come le presenze molto attive e seguite di Angioletti e Contini (Soldini dedicò loro due sostanziosi testi). Ma non mi dilungo perché l’argomento è da così tanto tempo sotto la lente che parlarne risulterebbe ripetitivo. Voglio solo ricordare in mezzo a tutto il valore che ebbe il Premio letterario "Libera Stampa" per un intero ventennio, ponendo alla ribalta scrittori italiani ancora quasi o del tutto sconosciuti, come Pratolini, Sciascia, Delfini, Risi, gli stessi Sereni e Orelli. La giuria di quel premio era per metà italiana e per metà ticinese, con Bianconi, Salati, Bellinelli e Soldini. Per recepire il clima di vicinanza tra Ticino e Italia a quel tempo basterebbe rileggere questi pochi versi di Sereni, scritti proprio per il "Libera Stampa": Vi dico che non era un sogno. / C’erano tutti, o quasi, i volti della mia vita / compresi quelli degli andati via / e altri che già erano in vista / lì a due passi dal confine / non ancora nei paraggi della morte.

È possibile sintetizzarne l’apporto?

L’indole di Adriano Soldini, come ha fatto ben risaltare nel suo saggio Renato Simoni, era passionale, motivata profondamente dall’impegno civile e da una viva partecipazione alla vita culturale del paese. Ciò l’ha inevitabilmente condotto "in prima fila", sia nel farsi promotore di iniziative culturali ed editoriali, sia semplicemente nella presa di posizione sui fatti di attualità politica, civile e di costume (dai corsivi in difesa delle minoranze e dei diritti civili, in generale, alle battaglie contro la svendita, la cementificazione, l’annichilimento del nostro territorio). E poi, ovviamente, c’è l’impegno culturale. L’amico Caizzi ha scritto che per lui cultura significava "conquista del pensiero". Ma ciò che qui più mi preme ricordare è il suo lavoro ultradecennale alla direzione della Biblioteca cantonale, coronato dall’acquisizione del preziosissimo archivio di Giuseppe Prezzolini e, grazie ad esso, dall’avvio degli Archivi di cultura contemporanea italiana.

Come descriverebbe (culturalmente) quegli anni?

È un periodo molto interessante, effervescente. Solo per fare un esempio: Radio e Televisione organizzavano in prima serata lunghe trasmissioni e dibattiti dedicati alla cultura. L’ho toccato con mano occupandomi al Museo d’arte Mendrisio di una mostra sugli anni Sessanta-Settanta. La presa di posizione di un uomo di cultura su temi di attualità aveva un certo peso; ora decisamente meno. E qui vorrei ricordare due fatti significativi emersi dall’epistolario di Soldini: una lettera di Sciascia del ‘60. in cui chiedeva a Soldini e Filippini di denunciare nella "libera Svizzera" la simpatia di un cardinale per il regime franchista, ma d’altro canto la rinuncia di Sereni – siamo nel ’72 - a rendere pubblica la sua posizione sulla questione Nazionalismo e cultura "perché c’è un intervallo non facilmente colmabile tra il letterato e l’intellettuale (…) e io sono sicuro che senza un’adeguata preparazione, come nel mio caso, non potrei dire che banalità".

Il sentimento del territorio era ben radicato, ma lo sguardo andava oltre…

Se si intende territorio come paese di origine, "paese dell’anima" secondo l’indovinata definizione di Agliati per Soldini, bene, certamente il Mendrisiotto, Novazzano, l’attaccamento alla sua terra d’origine, che l’ha condotto anche in dure battaglie per la conservazione del patrimonio locale, fu un sentimento radicatissimo, a volte struggente, come nelle pagine iniziali di Corti e chiosi del Mendrisiotto (1965), o malinconico come nell’introduzione a Testimoni sulle colline (1988). E ancora più radicato se s’intende la ricerca della propria identità, che significò per lui senza compromessi la difesa dell’italianità del Ticino; cosa che gli diede lo spunto per molti dei suoi lavori di ricerca storica. Ma ora c’è anche da domandarsi – e riprendo una recensione delle Strade di Biancamaria Travi per il prossimo numero del Cantonetto – quanto l’Italia di oggi possa capire "questa istanza fraterna".

Dopo i ‘Ringraziamenti’ che fungono anche da premessa, si legge un ‘ricordo’ spigliato e divertito di suo fratello. Qual è il suo?

Io lo ritengo piuttosto un ritratto di famiglia colmo d’affetto. Mi ci ritrovo pienamente. Ciò che trasmette è essenzialmente il carattere "non borghese" che vi regnava: protagonista assoluta nostra madre di origini romagnole, allergica a ogni rituale mondano-culturale. Zia Nene, romanticamente filorussa (andò quindici volte al cinema per Il dottor Zivago) e coppiana, il Rio, clochard parigino, e la Clarissa, solitaria vigezzina, sono patrimonio di famiglia, per noi un arricchimento importante. Fabio Soldini (nessuna parentela) mi aveva suggerito di mettere in copertina il ritratto di Gaetano Bresci "vindice del popolo oppresso", collage eseguito da mio padre per passatempo con qualche foglia secca e qualche seme raccolti nel giardino di casa, l’immagine che accompagna il testo di mio fratello Nicola. Ho invece optato per una soluzione più convenzionale, ma quella di Fabio non era una cattiva idea. Gli oppressi, gli umili: un popolo che stava molto a cuore a nostro padre.


Adriano Soldini
Con Giuseppe Bolzani e Amleto Pedroli in una foto scattata sul principio degli anni Cinquanta, ai tempi della pubblicazione de ‘Le strade rosse’