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Simone Soldini, ‘i miei ventitré anni al Museo d’arte’

Il curatore della struttura di Mendrisio sta per concludere la sua carriera. ‘La scommessa vinta? LaFilanda’. I finanziamenti, ‘mancano le aziende’

Simone Soldini
(Ti-Press/B. Galli)
3 maggio 2022
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Scorci da una mostra per due: dentro le ampie sale del Museo d’arte di Mendrisio i preparativi fervono. Dal 22 maggio prenderanno vita le opere di Gianfredo Camesi e Davide Cascio. Le anticipazioni che riusciamo a scorgere attraversando i lunghi corridoi ci colgono di sorpresa e incuriosiscono. Sbirciamo tra le grandi installazioni, come fa un bambino impaziente. Ci viene incontro Simone Soldini, per lui sarà l’ultima esposizione da curatore del Museo. Dopo 23 anni la sua avventura museale (e non solo) termina qui. La Città si è già messa al lavoro per trovare il successore.

Com’è stato lavorare circondato da opere d’arte?

Com’è stato? Basta guardarsi attorno – ci risponde indicando verso il suo ufficio soppalcato –: bellissimo, con vista persino su una magnolia meravigliosa, che in aprile dà dei fiori splendidi. Per chi è appassionato è entusiasmante: sono stati 23 anni che sono volati. Per averli avuti sono grato alla Città e alla comunità: qui si è potuto lavorare nel miglior modo possibile. Certo all’interno del dicastero (Museo e cultura, ndr) il lavoro è stato tanto: oltre alle mostre ci sono le manifestazioni collaterali e gli eventi culturali sul territorio.

Tracciata la strada, questi due decenni sono trascorsi tra mostre non locali – «che hanno sempre qualcosa da dire e da insegnare, fungendo da stimolo» – esposizioni territoriali, spaziando dal Cinquecento all’Ottocento, e proposte nel filone dei contemporanei («E qui abbiamo vissuto tanti begli incontri, imprevisti, persone imprevedibili»). Del resto, quando è arrivato aveva le idee ben chiare: fare del Museo d’arte un punto di riferimento a livello regionale. Continuando, da un lato, con la tradizione, e dall’altro proprio con il ‘presente artistico’, la contemporaneità. È riuscito a dare al Museo la collocazione che voleva?

Dal mio punto di vista credo di sì. E di questo dico grazie anche alla squadra che lavora con me: un gruppo di amici. Anzi, ritengo sia importante che questo lavoro venga continuato. Anche perché ci sono voluti anni per entrare nella logica del contemporaneo. Abbiamo iniziato con Rolando Raggenbass, Selim Abdullah, artisti che avevano già una certa fama, e stiamo continuando con artisti della nuova generazione come Miki Tallone, Davide Cascio, spesso in dialogo con colleghi affermati o già storicizzati, penso a Sergio Emery e oggi a Camesi. Insomma, abbiamo fatto passi avanti. Sento che ci siamo radicati bene in questo senso nel territorio. Mostre come ‘Metamorfosi’ o ‘Da ieri a oggi’, ad esempio, sono state delle grandi collettive su artisti della regione e più ampiamente ticinesi, che hanno dato i frutti sperati. Oggi, infatti, abbiamo una collezione di arte contemporanea locale notevole.

Guidare il Museo ha significato anche accompagnarlo nella crescita della Città aggregata, ricca a livello museale. Che esperienza è stata?

In questi 23 anni ho assistito al pieno sviluppo della Città: da Borgo a vera cittadina (in particolare sotto il sindacato di Carlo Croci). Questo passaggio ha fatto scattare una nuova fase nella sua evoluzione culturale e sociale. Penso alla creazione della Filanda – al fianco di Soldini, Croci, il segretario Massimo Demenga, l’architetto Anne France Aguet, ndr –, nel 2010; nata dopo una gestazione di circa 7-8 anni ma che si è rivelata un impensabile successo. Di fatto ha cambiato dal punto di vista socioculturale il volto della Città e del territorio. Merito anche di chi la gestisce tuttora – Agnès Pierret, ndr –, introducendo i filanderi, l’orario prolungato, l’apertura domenicale.Vogliamo, però, continuare a rinnovare ed essere accoglienti dal punto di vista generazionale, di integrazione, aprendo ad esempio ai Quartieri, anche attraverso Casa Pessina, una realtà importante diventata sede di esposizioni fotografiche, e Casa Croci, diventata temporaneamente Museo dei Trasparenti.

A proposito di Museo dei Trasparenti: diventerà realtà?

Questo Museo è un traguardo che sarà raggiunto; la tempistica è difficile da dire (oltretutto in un momento non semplice). D’altro canto, tutto questo comparto è sotto studio: da Casa Maggi sino a Santa Maria. È tutto da rivedere e rimodernare. Tengo a dire, però, che i Trasparenti li abbiamo sempre conservati e vigilati (abbiamo creato un deposito per quelli più antichi), in maniera molto attenta. Sono stati inventariati, i più antichi salvaguardati; è stato creato per loro un provvisorio Museo a Casa Croci; ne sono stati realizzati di nuovi, vincendo antiche resistenze. Inoltre, con la Supsi si sta facendo un lungo lavoro d’inventario, conservazione e rinnovamento del materiale informatico, per un monitoraggio dei 700 Trasparenti.

Ecco, l’arrivo della Supsi: che contributo ha dato?

Ha avuto un impatto forte. Se da una parte l’Accademia di architettura, con cui pur abbiamo dei contatti, è entrata a poco a poco nella vita di Mendrisio, la Supsi si è subito fatta notare grazie anche alle loro continue proposte di collaborazione. In effetti, siamo stati molto sollecitati.

Torniamo all’Accademia: si è instaurato il colloquio sperato?

Certo. Chiaro, parliamo di due mondi autonomi e indipendenti. Voglio sottolineare, comunque, che è anche grazie all’Accademia se abbiamo creato la rete dei Musei d’arte del Mendrisiotto (Mam) che annovera, appunto, il Teatro dell’architettura assieme al nostro Museo, alla Pinacoteca Züst, al m.a.x. museo e al Museo Vela. Un punto di partenza importante, un’esperienza che stiamo portando avanti, passo per passo, prima regione in Ticino, e che ci ha dato modo di rafforzare i contatti continui e la politica di rete museale. È un’iniziativa seguita nel Cantone: il Locarnese potrebbe seguirci a ruota. Mi sento di dire che è uno degli ottimi successi culturali degli ultimi anni a livello regionale.

La mossa del Mam è stata anche una risposta a un Lac luganese che rischia di schiacciare le altre realtà museali?

C’è un po’ pure questo. La politica museale-culturale del cantone ha subito un cambiamento radicale con la creazione del Lac e del Masi. Credo, però, sia importante che ogni museo mantenga la propria identità e vada avanti con la sua storia, indipendentemente da quello che può crearsi attorno. Non bisogna subire troppe pressioni da parte di istituzioni nettamente più forti e articolate. In ogni caso, il Mendrisiotto ha risposto molto bene, e in tutti i sensi, attraverso musei e istituti. Non dobbiamo sminuire le singole ambizioni.

Tra queste ambizioni vi è altresì la collezione del Museo.

Quando sono arrivato 23 anni fa c’era una piccola collezione. In questi due decenni, forti di una politica rivolta anche al territorio, abbiamo acquisito tanto materiale: possediamo ora una collezione importante grazie a donazioni di fondi – come Macconi, Bolzani, Meroni e di vari eredi d’artisti – che hanno il loro perno tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento (senza tralasciare Seicento, Settecento, Ottocento e personalità dell’avanguardia). La collezione oggi può vantare testimonianze ed elementi importanti di arte ticinese e lombarda. Un altro risultato raggiunto in questi anni, tramite l’accordo con il privato, è l’inventario completo (pronto a breve) della biblioteca storica Torriani con i suoi 4-5mila volumi.

Parliamo allora delle sfide, qual è stata la più grande?

Senz’altro il Centro culturale LaFilanda. Stimolato da Rolando Schaerer, ho girato in vari Paesi per visitare strutture simili, ma a quel tempo non immaginavo fosse possibile aprirne una a Mendrisio. Era una scommessa, forse un azzardo. Abbiamo avuto anche dei dubbi. Ci siamo chiesti: non sarà troppo un Centro su 3-4 piani di 2’600 meri quadri circa? Magari è una follia quella che stiamo pensando? Eppure avevamo sempre riscontri positivi dall’estero. Siamo giunti anche al punto di dire: rinunciamo o l’affrontiamo un passo alla volta? Oggi ne siamo tutti orgogliosi: abbiamo portato una ventata nuova, oltre a una struttura pilota nel cantone. Certo ci siamo trovati a lavorare da soli. A ripagarci è stata la popolazione, che ha vissuto benissimo questo cambiamento. Solo i filanderi ora sono quasi un centinaio.

Allargando il discorso, qual è oggi il rapporto col pubblico e il territorio?

Il pubblico è un altro punto di discussione che apre tanti interrogativi e questioni. I musei in Ticino sono ancora molto ‘giovani’: non abbiamo una tradizione come nella Svizzera interna. È una realtà cresciuta poco a poco. Il Museo cantonale ha iniziato a lavorare negli anni Sessanta, noi nei primi anni Ottanta. Il radicamento al territorio necessita di tempo. Un territorio che ha comunque accolto bene le nostre proposte. Il nostro è un pubblico variegatissimo: un terzo ticinese, un terzo dalla Svizzera interna e un altro terzo dall’Italia per le mostre non locali. Ci sono state mostre di successo: Cuno Amiet, Piero Guccione, Max Beckmann, André Derain, l’ultima su A.R. Penck con diverse migliaia di entrate. Ma puntare solo su scelte di questo genere non è serio da un punto di vista culturale. Così abbiamo voluto proporre linguaggi contemporanei, artisti – soprattutto locali - che portavano cose nuove per il nostro territorio, con una risposta più selettiva da parte del pubblico. Non si può essere solo compiacenti con un vasto pubblico. In alte parole, diversificare, quindi affiancare a mostre di sicuro successo esposizioni più sperimentali, è positivo per la nostra realtà. E a volte gli esperimenti danno buoni riscontri. Chi opera all’interno di un museo deve dare spazio a tutte le tendenze e tutti i periodi.

Affrontiamo ora il tema dei finanziamenti: in questi anni spesso si sono ventilati tagli alla Cultura. È stato un problema?

Qui forse siamo controcorrente. Oddio, si spera sempre di veder aumentati i fondi, ma tagli veri e propri non posso dire di averne subiti. Certo, abbiamo dovuto limare qua e là, ma senza pressioni. Spero sia così anche per chi mi succederà. La lamentela che posso fare è semmai riguardo agli sponsor: lì sì che c’è un problema. Il punto non è la proposta, ma la collocazione del nostro museo. I musei di provincia non godono dei favori delle aziende: questa è la verità. Un tempo le grandi banche ci finanziavano (con 30-40mila franchi l’anno), adesso non danno più un franco perché la nostra non è una piazza allettante, non è un luogo all’altezza della sponsorizzazione. Eppure di sforzi per convincerli ne abbiamo fatti! E devo dire che, di recente, anche da un istituto di credito più radicato al territorio non sono più arrivati quei sostegni attesi. Non sono Cantone e Comune i deficitari, sono le imprese a esserlo. Ci vorrebbe una sensibilità ben maggiore. A parole apprezzano, poi con i fatti...

C’è una sua opera incompiuta?

Il Museo adesso ha bisogno urgente di nuovi depositi. Probabilmente l’idea del comparto polo museale – da qui a casa Maggi –, come detto, effettivamente è da realizzare. Va messo a poco a poco in cantiere. Abbiamo raggiunto dei traguardi, ma ci sono ancora tante cose da fare. Tra queste appare davvero importante creare anche un palazzo della musica e del teatro: nel Mendrisiotto ci starebbe benissimo. Anche questa è una scommessa come lo è stata LaFilanda, ma sarebbe una struttura che funzionerebbe a pieno regime e che il Comune meriterebbe. In questi anni, infatti, abbiamo riscontrato un vero interesse a livello, ad esempio, di compagnie teatrali. Il Mercato coperto non è certamente adatto adesso, eppure si va ancora lì per concerti e manifestazioni. Ribadisco: ci vuole un vero auditorium per teatro e musica.

Una struttura simile è nell’agenda politica?

No, in realtà è scomparsa. Se ne parlava quando Mendrisio viaggiava finanziariamente molto bene, ora non è più il caso. Il salto finanziario, in effetti, non è da poco. Sono però convinto che avrebbe un seguito. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di dire che non c’è un bacino sufficiente (stessa musica per La Filanda!), ma non ci credo. In altre realtà, piccoli territori hanno un teatro e funziona.

Se dovesse nominare un artista che le è rimasto impresso?

Ho avuto tante esperienze bellissime. Dal lavoro sono nate amicizie meravigliose: penso alla famiglia Guccione, alla mostra preparata con Ezio Bassani sull’Africa, agli incontri a Ravecchia con Mimma e Giorgio Orelli, ai bei rapporti con la famiglia Amiet, al gruppo di amici nell’impegnativa mostra sull’Anarchia. Poi, gli artisti ti danno sempre qualcosa. Not Vital è un artista fuori dall’ordinario: fino a una settimana prima dell’esposizione non sapevo cosa avrebbe portato. Così come lo è Olivier Mosset. E poi Adriana Beretta, Selim, Raggenbass, Pedroli, Pitschen, tutte personalità particolari. Ricordo l’incontro toccante con Kirkeby gli ultimi mesi della sua vita. O ancora il bellissimo rapporto con Gianfranco Bruno per la mostra su Birolli, con Gohr per Beckmann, con Jensen per Penck. Sono amicizie che sono rimaste negli anni.

Qualcuno ha fatto i capricci?

Ci sono stati momenti di grande tensione. A volte si dorme male per 3 o 4 giorni, ma in generale si tende a dimenticare il problema. Gli artisti investono molto in una mostra: si instaura con loro un rapporto speciale, stretto, intenso.