Non era il futuro quando George Orwell lo scrisse, ma il passato e il presente da qualche parte nel mondo, in Europa, poco importa dove
"Tu penserai che il nostro compito principale sia inventare parole nuove. Ma nient’affatto! Noi le distruggiamo – decine, centinaia di parole al giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso". Lo dice Syme, il ‘filologo’, in una pausa del lavoro a Winston Smith, protagonista di ‘1984’. "Prendi ‘buono’, ad esempio. Se hai una parola come ‘buono’, che bisogno c’è di ‘cattivo’? ‘Sbuono’ funzionerà altrettanto bene – anche meglio, dato che è un esatto contrario, mentre l’altra no".
Per il titolo del suo libro più noto Orwell volle il numero in lettere, ‘Nineteen Eighty-Four’, da lì in avanti però nel più delle edizioni, di lingua inglese o meno, si impose la cifra. Delle diverse nuove edizioni italiane del 2021, allo scadere dei diritti, soltanto Sellerio e il traduttore Tommaso Pincio scelgono Millenovecentottantaquattro (per questo articolo e per le citazioni, mi riferisco alla traduzione di Bianca Bernardi per Garzanti). Scritto a più riprese in tre anni, il romanzo uscì nel giugno del 1949, sette mesi prima della morte dell’autore, quarantasettenne. Orwell passò gli ultimi anni della sua vita, dunque, combattendo con la tubercolosi e in compagnia della sua storia distopica. O lottando con la sua storia mentre si arrendeva alla tubercolosi.
Immagini di dittature reali visitano il lettore di ‘1984’. Fotografie. Parate militari, feste del Sole, commemorazioni: uniche immagini diffuse dalle dittature quelle vere. Mentre leggo la più nota delle utopie negative ritrovo una scatola di articoli ritagliati. Il secondo è un reportage, di Angelo Aquaro, sul regime di Kim Jong-un. Un inserto della ‘Repubblica’ del 7 luglio 2017 quando a far paura era il nucleare di Kim. Si legge tra la curiosità – morbosa – e il ribrezzo, l’orrore, il sollievo di vivere da un’altra parte. Con pena si guardano le immagini, tutte della ‘normalità’ quotidiana. Persone che aspettano l’autobus; una bambina, una guida turistica, una ‘traffic lady’ (che andrà in pensione a 26 anni, o prima se si sposerà prima), ritratte al centro di piazza Kim Jong-il o davanti all’Arco della Riunificazione. La sensazione di aria comune con il romanzo di Orwell è confermata anche nell’astrattezza delle informazioni. Di nessuna delle notizie riportate, raccogliendo fonti coreane del sud o cinesi, si sa se siano vere o false. A parte i sorrisi e le efferatezze, tutto potrebbe essere falso. Lo stesso avviene in ‘1984’ e Winston Smith, impiegato al ministero della Verità, lo sa meglio di tutti. Sulla sua scrivania cadono da una fessura della parete correzioni da apportare a vecchi numeri del ‘Times’: il Grande Fratello aveva previsto un attacco dell’Eurasia il tale giorno, e respinto, sul fronte del Malabar. L’attacco avviene su un altro fronte, un altro giorno. Si dovrà correggere l’articolo del ‘Times’ che riporta le sue parole, stampare le nuove copie, sostituirle negli archivi alle vecchie che verranno bruciate. "Di giorno in giorno, quasi di minuto in minuto, il passato veniva continuamente aggiornato". Ma nemmeno Winston sa davvero cosa sia vero e cosa falso. Non sa nulla del passato che sia diverso dal presente: era troppo piccolo al momento della Rivoluzione. A complicare definitivamente ogni cosa il precetto del ‘bipensare’ propugnato dal regime: "Sapere e non sapere (...), sostenere al contempo due opinioni incompatibili e credere a entrambe (...), usare la logica contro la logica, ripudiare la moralità pur ergendosi a suoi detentori...".
Superfluo dire che chi legge si affeziona a Winston Smith dal primo incontro, e diventa Winston Smith. Sa che se si potrà fare qualcosa sarà lui a provarci, fosse anche da solo, con la figura più inadatta al compito: "Esile e piuttosto minuta, la magrezza del corpo leggermente accentuata dalla tuta blu che costituiva l’uniforme del Partito". Il breve ritratto è alla seconda pagina, il nome di Winston alla seconda riga. Comincio la lettura un poco spaventato. Della prima lettura, forse del 1985 ("L’anno che stiamo per vivere – si leggeva sulla copertina – raccontato 36 anni fa nella più famosa delle profezie") non ricordavo che il grigiore e una tortura interminabile, tremenda, ovviamente di Smith. Più un libro ti impressiona, meno dettagli ricordi. E riguardo alla tortura spero (a pagina 124) di ricordare male.
Qualcosa ci sarà a dare aria mentre leggi? Qualche forma di levità, di luce, crepe di speranza che si scorgano non troppo di rado? Qualcosa ci sarà. Forse una specie di ironia, l’unica possibile in uno scenario simile. Ed è proprio questo, forse, la più inavvertibile delle ironie inglesi. L’ossequentissimo vicino di Winston, Parsons, che è anche suo collega, ha appena ascoltato l’annuncio sul presente prosperissimo fatto dal ministero della Prosperità, e dice "scuotendo la testa con l’aria di chi la sa lunga": "Il ministero della Prosperità ha fatto proprio un bel lavoro quest’anno (...) A proposito, Smith, vecchio amico, non avresti mica una lametta da darmi?".
‘Nineteen Eighty-Four’ non era il futuro quando fu scritto, ma il passato e il presente da qualche parte nel mondo, in Europa, poco importa dove. I regimi si assomigliano tutti, puoi non sapere ‘quando’ qualcosa vi succede, né il ‘come’ e perfino il ‘chi’, ma sai sempre il ‘che’. Si somigliano così tanto perché la disumanità è elementare, monotona, uniforme fino all’ossessione. Mentre l’umanità è indefinita e innumerevole, piena di sfumature che fanno la sua sostanza.
Per questa umanità inizia a lottare Winston Smith, e noi approviamo ogni sua scelta, lo seguiamo a ogni passo, timorosi e al riparo, che vinca la sua battaglia o la perda.