Dalla figura di Hugo Pratt ai legami stretti fra fumetto e cinema. Quattro chiacchiere con la mente che ha ideato il personaggio di Nathan Never
L’immagine e la parola, l’evento primaverile del Locarno Film Festival, si è chiuso ieri portando sul palco colui che è annoverato fra i più grandi autori di fumetti italiani: Hugo Pratt. O meglio, il come può essere rappresentata la vita di quello che fu l’ideatore di Corto Maltese. Perché una storia può essere raccontata utilizzando linguaggi differenti. Può essere scritta su carta, disegnata, messa in scena, recitata. Lingue differenti, talvolta distanti, talvolta invece così vicine da comunicare fra loro. Il dialogo ieri c’è stato fra il regista ticinese Stefano Knuchel, che ha presentato il documentario ‘Hugo in Argentina’ e il fumettista Bepi Vigna, la cui biografia di Pratt ha invece raccontato nel volume ‘La ballata di Hugo’. E proprio con Vigna ci siamo fermati a riflettere sul legame che vi è fra cinema e fumetto.
‘La ballata di Hugo’, edito da lo Scarabeo e uscito nel 2021, racconta in modo romanzato la giovinezza di Pratt.
Esatto. È un luogo comune dire, quando si parla di Pratt che "la sua vita sembra un fumetto". Allora, ragionando insieme all’editore del libro, ci siamo detti: perché allora non provare a farne un fumetto? Così abbiamo contattato il disegnatore Mauro De Luca, i cui acquerelli rappresentano alla perfezione ciò che cercavamo per due motivi: perché Pratt è stato una grande acquerellista e poi perché questa tipologia di pittura lascia sul foglio un segno indefinito, che ci sembrava il più adatto per un racconto che si snoda fra il ricordo e il sogno, tra avvenimenti reali e altri invece filtrati dalla fantasia di Pratt. Era un grande affabulatore. L’ho conosciuto superficialmente, però era noto per essere uno che arricchiva i suoi racconti non con delle falsità ma con delle suggestioni. È naturale per i grandi narratori. L’idea era quindi quella di mettere a confronto i fatti reali della vita con l’uso immaginario. Ed ecco quindi che nel fumetto Pratt compare bambino dentro una storia a fumetti dei personaggi che lui leggeva da piccolo.
Lei si sente più scrittore o fumettista?
Nessuno dei due. O meglio, preferisco definirmi come un narratore. Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto ascoltare storie per poi per rielaborarle. Come tutti coloro che amano narrare sono anche uno che ama molto viaggiare, perché dietro a un viaggio c’è sempre l’idea di un racconto da fare oppure l’idea di un racconto da scoprire. Per cui io mi muovo nella sceneggiatura, sia quella di un fumetto ma anche per il cinema e il teatro. Mi cimento anche nella scrittura di romanzi. Tra tutti però la mia più grande passione rimane il cinema, che ho sempre cercato di praticare. La regia mi ha sempre affascinato. Quindi preferisco definirmi come una persona a cui piace raccontare e anche ascoltare delle storie. Ma prima di questa mia vita da narratore, facevo tutt’altro.
Ovvero?
Ero un avvocato. Della professione mi è sempre piaciuto soprattutto il contatto con le storie che mi arrivavano dai miei clienti. Mi interessavo di diritto penale e cercavo di capire che cosa stava dietro a determinate dinamiche, alcune anche molto drammatiche. E alla fine mi sono reso conto che questo mio lasciarmi affascinare dalle narrazioni era il campo della mia realizzazione. Divago, me ne rendo conto. Molte volte però non ci rendiamo conto di come le storie siano indispensabili per noi, come lo è respirare o cibarsi, perché è solo attraverso il racconto che riusciamo a capire il mondo e noi stessi. Siamo fatti di carne e ossa, ma anche di parole perché esse ci definiscono. Poi certo, la forma con cui sono raccontate queste storie può sempre cambiare. A me piace il fumetto poiché si può fare quello che, per esempio, non si può fare col cinema per una questione di costi ed effetti, però è anche bello il romanzo dove si racconta usando solo le parole, dove bisogna evocare l’immagine.
Secondo lei il fumetto è letteratura?
Volendo citare Pratt una volta disse "il fumetto è letteratura disegnata". Devo dire che questa sua frase ha fatto bene al fumetto che risente ancora di tanti pregiudizi, dato che viene considerato come una forma d’arte espressiva minore se non come "sub-letteratura". Non la condivido però, perché il fumetto è un linguaggio differente dalla letteratura. Semmai il fumetto è più affine al cinema in quanto c’è l’immagine.Il fumetto è il fumetto e, se proprio vogliamo dargli una definizione, forse sarebbe meglio dire che è "narrativa disegnata" più che "letteratura", perché è un altro linguaggio, un altro codice. Sai, quando mi viene in mente una storia, io immagino anche in che forma la vorrò rappresentare. Ci sono certe storie magari più adatte per essere raccontate attraverso il fumetto, altre con un racconto, altre ancora attraverso il cinema o il teatro. Perché credo che le storie possano trovare espressione migliore anche attraverso il modo in cui la raccontiamo.
Lei prima ha parlato di fumetto e cinema, volendoli vedere come linguaggi espressivi simili.
Sì, simili ma anch’essi diversi. Quando penso a una trasposizione cinematografica ho a disposizione un’ampia gamma di strumenti ed elementi a disposizione. Come l’audio o il movimento, cose che il fumetto in sé non ha. Una cosa in comune sicuramente c’è: per creare un film oppure un fumetto bisogna pensare per immagini. Mentre invece quando si scrive un racconto si deve fare avendo in mente le parole, bisogna tirar fuori l’aspetto evocativo delle parole. Diverso ancora scrivere per il teatro perché c’è l’elemento del rapporto con il pubblico. Non puoi scindere ciò che accade sul palco da quello che succede invece fra gli spalti.
Tornando al fumetto. Lei ha notato che negli anni ci sono stati dei cambiamenti a livello di mercato? Pensiamo per esempio ai giovani. Leggono ancora i fumetti?
Direi che in questo senso stiamo vivendo un cambiamento epocale. Ciò perché emergono nuove forme di comunicazione che in molti casi richiedono una fruizione più passiva. Ed è ciò che è successo al fumetto. Pensiamo ad esempio agli anni Cinquanta quanto si parlava del così detto fumetto popolare. In Italia e Francia ci fu un vero è proprio boom. Quando ho iniziato a muovere i primi passi in questo mondo erano gli anni Ottanta ed era l’epoca d’oro. Negli anni Novanta, quando uscì Nathan Never mi ricordo che vendevamo fra le 400 e le 350mila copie; cifre impensabili oggi. All’epoca si diceva che il nemico numero uno del fumetto era la televisione, perché la tv offriva un’occasione di svago per i giovanissimi. Ora c’è internet, ci sono i computer, i tablet, i cellulari e i social che creano diverse interazioni e forme di comunicazione. Tutto ciò purtroppo ha danneggiano il fumetto, anche se non mi piace usare questi termini, anche perché se da un lato la tecnologia toglie spazio alla carta, dall’altro offre nuove piattaforme allettanti anche per il fumetto. Io credo che non dobbiamo avere paura di altre forme di comunicazione. Temo di più il fatto che la gente perda il fascino verso le narrazioni. Questo sta avvenendo. Non per via dei nuovi mezzi ma dell’uso sbagliato che se ne fa. Si punta troppo a parlare alla pancia del pubblico e troppo poco alla loro testa.