laR+ L’intervista

‘Lubo’, la buona educazione è amare

Il film sul dramma svizzero degli jenish ha toccato Castellinaria: a colloquio con il regista, Giorgio Diritti

Franz Rogowski è Lubo
20 novembre 2023
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Scritto per esteso è Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse, ma si è soliti abbreviare in ‘Bambini della strada’. È il programma portato avanti tra il 1926 e il 1973 dalla Pro Juventute e finanziato dalla Confederazione, da benefattori e da industriali, avente il nobile fine di rieducare i figli dei nomadi e di combattere il nomadismo. Tradotto nella realtà: allontanamento forzato di bambini dai propri genitori, collocazione in case, famiglie affidatarie, orfanotrofi, istituti psichiatrici e all’occorrenza prigioni. I racconti dei traumi derivanti dall’esperienza ci raggiungono periodicamente.

‘Lubo’, film di Giorgio Diritti presentato a Venezia e transitato ieri dal 36esimo Castellinaria, si concentra sul popolo Jenish, la terza maggiore popolazione nomade europea dopo i Rom e i Sinti. È liberamente tratto dal romanzo ‘Il seminatore’ di Mario Cavatore. Nella Svizzera del 1939, l’artista di strada Lubo Moser viene chiamato a difendere i confini nazionali dal rischio dell’invasione nazista; quanto basta perché Confederazione gli porti via i tre figli piccoli; la moglie muore nel tentativo di impedire che ciò avvenga. Con un cruento escamotage, Lubo cambia identità e si mette in cerca dei figli. E in cerca di giustizia.

Incontrato prima della proiezione, Diritti ci tiene a fare il nome di Uschi Waser: «È una delle persone che più mi hanno motivato nel fare questo film. Ha subito quel trauma, è stata in una ventina di collegi diversi subendo cose ‘poco simpatiche’. Quando l’ho incontrata ho sentito forte la necessità di dare voce alla sua sofferenza e a quella della sua gente. Ho saputo quanto abbia lottato per affermare una dimensione di riconoscimento etico, morale ed economico. Sul set del film, sopra i carri, ci sono altri jenish. Mi è sembrato bello e giusto coinvolgerli».

‘Mi sono sentito obbligato a fare questo film’, ha dichiarato nei giorni veneziani. Quando, un regista, sente l’obbligo?

Quando le cose che ti hanno detto e che hai letto sono tanto forti e provocatorie da spingerti a rendere pubblica una storia. È l’urgenza del credere che possa essere utile fornire al mondo uno sguardo di denuncia o di riflessione, e non solo un esercizio stilistico.

È il ‘teatro civile’ portato al cinema?

Quella definizione, che in passato ho fatto mia, non è in verità una ‘bandiera’ dai confini definiti. Credo che quel tipo di urgenza colpisca allo stesso modo chi racconta storie più leggere. Credo comunque che il ruolo del cinema sia anche quello di essere specchio della società e dell’anima delle persone, la nostra e di quelle che conosciamo. È una forma di empatia che diventa utile al mondo.

A chi crede che il segreto della felicità sia in una buona educazione, Lubo risponde che ‘la buona educazione è amare’. È appena uscito da un cinema in cui si inneggia a Hitler.

In quel cinema c’è quella parte di Svizzera che sposa gli ideali dell’eugenetica e un’altra che si ribella. In quel dialogo in auto, altrettanto, c’è lo specchio di una società borghese che non sapeva da che parte stare e credeva che nella buona organizzazione delle cose risiedesse il segreto per rendere le persone felici. Lubo dice invece che la chiave per l’armonia è un’altra. Quella frase ha una valenza importante, che nella scena successiva produce la sua reazione più forte.

Quella di ‘inseminare’ donne non jenish...

Come da titolo del libro: ci volete eliminare? E io mischio le razze, tanti me ne avete portati via e tanti io ne ricreerò. Ma il meccanismo contenuto nel libro, una volta svelato, si esaurisce come tale. La cosa interessante è stata per me riuscire a esprimere l’intero percorso di turbamento di quest’uomo, il suo desiderio di vendetta ma anche il sentimento umano, la grande solitudine, la disperata ricerca dei figli e del senso della vita. Era fondamentale riuscire a produrre una sensazione più ampia, che chiama una più facile immedesimazione. È stata anche, semplicemente, una scelta di pancia: mi sono chiesto cosa avrei fatto io in una situazione di questo tipo.

Che sensazione prova a riaprire, sul posto, una delle ferite più profonde della Confederazione? Che riscontri ha avuto dal pubblico svizzero?

A Zurigo, seconda proiezione dopo Venezia, il film è stato recepito bene e accompagnato dalla giusta riflessione. Dalle domande che mi hanno posto, ho capito che l’argomento fa parte di quella polvere che si mette sotto il tappeto, come si dice in Italia. Ho percepito l’apprezzamento per come ho affrontato la tematica e, insieme, un domandarsi come mai un italiano si sia così appassionato a questo tema, che per altro non ha alcuna regionalità. Iniziative di questo tipo, magari con meccanismi diversi, si sono verificate in Svezia, in Australia; penso alla sterilizzazione degli alcolisti negli Stati Uniti e a tutte le azioni compiute in nome dell’eugenetica che hanno avuto sostegno e addirittura credibilità. Quando ho approcciato il romanzo e poi la scrittura non sono mai stato interessato a puntare il dito contro uno Stato. Sulle ideologie sono invece molto critico: portare via i figli ai genitori, salvo casi estremi di abusi o violenze, non è mai un bene. Il farlo sistematicamente è criminale.

Il protagonista del libro non è un artista, nel film invece lo è.

Nelle mie ricerche ho scoperto che gli jenish intrattenevano spesso le piazze con spettacoli di ballo. Mi è sembrato interessante in chiave di evoluzione della storia, di trasformazione del personaggio. Con la premessa del cambio d’identità, la scelta ha un senso pratico ma anche una sua importanza rispetto alle logiche discriminatorie verso un’identità culturale: nel momento in cui si scambiano i punti di partenza, tutto può essere; dunque, tutti siamo uguali.

L’informazione che ‘Lubo’ dura due ore e cinquanta minuti rischia di essere fuorviante. E invece, per sapere se riuscirà a rivedere i figli che gli sono stati tolti, saremmo stati disposti a restare davanti allo schermo un’altra mezzora…

Ho avuto molti riscontri di questo tipo. La forza del film è quella di avere una tensione emotiva e narrativa che supera la titubanza creata dalla lunghezza. Da un lato è una cosa positiva e io sono felicissimo; dall’altro, l’aspetto delle quasi tre ore è più delicato, perché a livello di distribuzione, in Italia, qualcuno pare essersi spaventato.

Il primo piano di Franz Rogowski-Lubo Moser pare il risultato di un morphing proveniente da quello di Elio Germano-Antonio Ligabue. Come è arrivato all’attore tedesco?

Ho cercato a largo spettro, in Italia e all’estero, in rete o tramite agenzie di casting; dovendo raccontare di un nomade, m’interessava che l’interprete fosse credibile e che avesse conoscenza di almeno una delle tre lingue ufficiali. Mi sono imbattuto in alcuni video di Rogowski e mi sono ricordato di averlo notato in un film di Terrence Malick (‘La vita nascosta’, ndr), in un altro film in cui non parla quasi mai, ‘Un valzer tra gli scaffali’, e in un altro ancora di Haneke (‘Happy End’, ndr). Ci siamo incontrati via Skype, ho scoperto il suo padroneggiare le lingue, i suoi studi di giocoleria in Ticino (al Teatro Dimitri, ndr). Mi ha colpito la sua faccia, lo sguardo, la capacità di concentrazione, l’intensità di un volto che può diventare da amorevole a inquietante in un attimo.

Quanto la responsabilizza, un film come questo, in un festival per giovani e famiglie?

Può lasciare le molte emozioni che, io credo, ‘Lubo’ porta con sé. A partire dall’evoluzione di un uomo che, subendo una grande ingiustizia, si deve ricostruire una vita. È un evento che tocca direttamente l’esperienza giovanile, il momento dello smarrimento iniziale, la crescita, il diventare uomini e assumersi responsabilità sempre più complesse. Penso che il film sia anche lo specchio di tutti coloro che cadono e devono rinascere. Quanto alle mie, di responsabilità, credo di lavorare da sempre in questa direzione: soprattutto i miei primi film sono indirizzati alle giovani generazioni, sono strade di incontri che ti mettono di fronte un passato che parla all’oggi.


Keystone
Giorgio Diritti nei giorni veneziani