Una vita segnata da lutti e dolori precoci, il suo anticonformista ‘Grido interiore’ risuona a Milano, Palazzo Reale, fino al 26 gennaio
Per certi versi quello che Goya è stato per rapporto all’arte europea tra Sette e Ottocento, Edvard Munch (Norvegia, 1863 -1944) lo è stato nel passaggio tra Otto e Novecento. L’uno e l’altro hanno infatti rotto con i conformismi degli ambienti in cui operavano, hanno saputo leggere tanto la società del proprio tempo quanto sé stessi, hanno vissuto una vita tribolata. Ma a differenza di Goya che comincia con i colori primaverili e le scene gioiose dei cartoni destinati agli arazzi reali ma poi si imbatte nei disastri della guerra e finisce con la drammaticità delle pitture nere, Munch inizia la sua attività pittorica con l’esperienza del dolore e della morte, ma poi si apre anche al mistero dei paesaggi nordici, specie quelli innevati e notturni, al chiaro di luna.
Una vita, quella di Munch, segnata da lutti e dolori precoci: la perdita della madre a soli cinque anni, poi della sorella quindi del padre, la tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen, i suoi reiterati ricoveri in cliniche per disintossicarsi dall’alcol e dalle droghe. È da tali esperienze di vita che l’artista ha elaborato la propria dirompente e personalissima poetica espressa poi in maniera potente e diretta: andando oltre la peculiarità degli stili, prendendo quanto gli serviva dove lo trovava, incurante della bella forma e del bel quadro, per andare oltre, insoddisfatto di qualsivoglia compiacenza e proteso solo a rendere le inquietudini della sua anima. Basti leggere quanto scriveva a proposito dei suoi paesaggi: “Era l’epoca del realismo e dell’impressionismo. In uno stato di eccitazione febbrile o in uno slancio di gioia, mi capitava di imbattermi in un paesaggio che mi veniva voglia di dipingere. Ne veniva fuori un buon quadro, ma non era quello che avevo inteso dipingere. Era sempre così. Un giorno, mi sono messo a raschiare la tela che avevo appena dipinto, cercando di recuperare la prima impressione e di farla risorgere”. Raschiare per ritrovare “la prima impressione”, non la ‘bella opera’.
Munchmuseet
Le ragazze sul ponte, 1927, olio su tela
Era già successo con La bambina malata, la sorella che sarebbe poi morta di tisi, oggi celebre dipinto ma aspramente criticato quando fu esposto nel 1886 alla Mostra d’Autunno di Kristiania, perché sembrava un abbozzo trascurato nel disegno, nel rapporto tra le forme e lo spazio, con strati di colore e sgraffi ancora visibili. Munch aveva solo 23 anni, l’età in cui un giovane artista inizia a far vedere le proprie capacità, di cui egli pare invece non curarsi perché quel che cerca è un tono, un’atmosfera dentro cui dare forma al ricordo, quello visivo ma forse più ancora quello emotivo, sfruttando in modo assolutamente inusuale il potenziale espressivo della pittura. “Le mie sofferenze fanno parte di me stesso e della mia arte – scriveva –. Sono indistinguibili da me, e la loro distruzione distruggerebbe la mia arte. Voglio conservare quelle sofferenze”. Conservare quelle sofferenze voleva dire riuscire a risentirle dentro la pittura.
Ne è testimonianza gran parte della sua arte. Con il rischio, però, come scrive Domenico Piraina, che insistendo su questo aspetto, “invece di valorizzare il ruolo centrale di Munch nella storia dell’arte moderna, di fatto lo si isoli in una dimensione, pur grandissima, di eccezionale solipsismo”, anziché posizionarlo criticamente all’interno di quella doppia linea, sia formale sia concettuale, che sale fino a lui. Dal punto di vista formale, nel suo rapporto evolutivo con i linguaggi e gli stili del moderno: dal naturalismo al primo impressionismo che in lui si interiorizza e carica presto di venature simboliste rese con pennellate fluide e linee morbide, a spirale, come flussi di ascendenza liberty, ma caricando poi il tutto di dramma o di mistero, in toni forme e colori assolutamente inusuali per l’epoca, tanto da venir poi considerato un precursore dell’Espressionismo. Quanto al concetto di arte, mettendolo nel solco di quella “linea introspettiva dell’arte moderna, frutto della progressiva presa di coscienza della perdita di centralità della specie umana, messa in dubbio prima dalla rivoluzione copernicana, poi dall’evoluzionismo darwiniano, infine con la psicoanalisi freudiana” e il soggettivismo dell’inconscio per cui l’artista, anziché rappresentare il mondo esterno (si pensi all’Impressionismo), punta a ‘spremere’, a ‘exprimere’ il proprio mondo interiore sulla tela. “Come Leonardo da Vinci studiò l’interno del corpo umano dissezionando cadaveri, così io cerco di dissezionare l’anima”, scriveva nel 1909 Munch.
Munchmuseet
L’assassinio, 1906, olio su tela
Ma c’è anche un terzo aspetto. Conformemente al suo modo di vivere e operare sugli estremi di uno stato d’animo che passa da “febbrile a gioioso”, al fondo dell’arte di Munch non c’è solo il dramma della vita o l’inquietudine dell’anima, c’è pure il richiamo misterioso della natura che torna a pulsare, lasciandoci sospesi, in alcune sue opere. Come nei suoi paesaggi nordici, spesso innevati, dove si perde in contemplazione di fronte all’immensità del cielo stellato (qui soccorre la memoria di Van Gogh) o dei paesaggi che si perdono a vista fino all’estremo orizzonte. Dall’altra là dove alla spossatezza della malinconia e della separatezza subentra, a intervalli, una sorta di fiduciosa speranza nella potenza rigenerante della Natura e del Sole con la sua luce irradiante, da cui poi la pratica del nudismo e dei bagni nelle acque del Mar Baltico, la sanità del lavoro nei campi, il contatto con gli animali. Una fede baluginante, quasi disperata, nella possibilità salvifica di una rinascita, di un ricongiungimento con la pienezza della vita e del cosmo: anche in anni tra i più drammatici della sua vita come di quella europea.