‘La ribellione della ragione’, l'evoluzione artistica del pittore e incisore spagnolo in mostra a Palazzo Reale, Milano, fino al 3 marzo
Il salto che Goya fece fare alla sua pittura nel corso della sua vita tribolata, e, di conseguenza, alla pittura europea tra Sette e Ottocento, anche se pochi all’inizio se ne accorsero, è abissale: da lasciare impressionati per l’onestà intellettuale e morale di questo uomo (che aveva pure le sue debolezze) nell’inseguire se stesso, nell’esprimere ciò che sentiva e pensava, nel fare della pittura uno strumento di scavo interiore e di giudizio etico-sociale spinto fino a dar spazio all’irrazionale e al raccapricciante, a metter in scena pregiudizi, superstizioni e meschinità del genere umano, e poi ancora a documentare con crudo realismo gli orrori e i disastri della guerra. Tanto da rovesciare il concetto stesso di arte, fino ad allora imperante, come ricerca del Bello e conferendo invece una inedita e allora inconcepibile valenza artistica anche al Brutto e al deforme.
Basterebbe mettere a confronto alcune delle opere con cui apre e chiude la rassegna milanese per rendersene conto: a partire da l’Annibale vincitore che valica le Alpi, del 1770-1771 o dai successivi cartoni per gli arazzi a Il manicomio e Il Colosso, entrambi del 1808, eseguiti dunque durante l’occupazione napoleonica della Spagna; ma il nostro pensiero va ancora più in là, alle Pitture nere (i Due vecchi che mangiano, Saturno...) con cui, tra il 1820 e il 1823, decorò le pareti di casa, la celebre Quinta del sordo: opere di amara e dirompente tragicità, non presenti in mostra perché troppo fragili per esser trasportate. Un crescendo che dal soggetto storico di Annibale, ancora intriso della splendida luminosità rococò di Tiepolo e Giaquinto, approda al male di vivere che si manifesta tanto nell’irrazionalità dei comportamenti umani quanto nella violenza della guerra, per chiudersi poi in un desolato silenzio che è anche un inquietante interrogativo proiettato sul mondo, sull’umanità, e coinvolge perfino quel povero cane solitario il cui muso si staglia smarrito contro lo spazio vuoto del cielo, “perso nell'immensità dorata che lo circonda e sembra sul punto di inghiottirlo”.
Museo Nacional del Prado, Madrid
Francisco Goya (attribuito a), Il Colosso, post 1808, olio su tela
Goya non ha solo amplificato e stravolto il repertorio di temi e soggetti del suo tempo; ha ribaltato anche il tradizionale concetto di arte che non coincide più con l’armonia delle forme e con il bello ideale, ma con il vero da non intendersi come imitazione di quello che si vede quanto piuttosto come espressione di ciò che si sente o che si agita dentro. Certo, ai suoi esordi egli vuol dimostrare di essere un buon pittore, in linea con le tendenze prevalenti nella pittura dell’epoca e che sa far sua la raffinatezza di una pittura accademicamente ben condotta e ariosa, racchiusa nel disegno pulito delle forme. Ma già nei cartoni per gli arazzi destinati alle residenze private dei reali si vede che Goya inizia a spostarsi, a battere nuove strade. Stando alla volontà del sovrano avrebbe dovuto illustrare temi laici, popolari, folcloristici – come la serie dei bambini che giocano o delle belle dame a passeggio – in modo da creare una scenografia spensierata. Cosa che Goya non manca di fare, aggiungendovi per di più un tratto che adesso si fa mosso e vibrante, impregnato delle luci e dei colori delle Quattro Stagioni. Ma dentro ci infila anche un muratore ferito portato a braccia da due compagni di lavoro in quanto caduto da un’impalcatura: un pensiero che non vuol essere troppo disturbante giusto per ricordare che esiste anche una popolazione a margine e a rischio.
Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Francisco Goya, Tu che non puoi. Dalla serie ‘Caprichos’, 42 1797-99, acquaforte e acquatinta
Dopo di che la sua visione prende un passo ben più deciso: Goya è stato infatti uno dei primi a fare dell’arte uno strumento di giudizio etico e sociale. In effetti, pur mantenendo i legami con la corte e gli aristocratici che ambiscono a farsi ritrarre da lui, egli stringe relazioni con una cerchia di amici intellettuali fidati, illuministi attenti alle condizioni sociali e storiche di quella sua tormentata epoca storica, e da quel momento la sua pittura si farà sempre più lucida e pungente. Se finora l’arte era stata soprattutto servizio e celebrazione del potere, con lui le cose cambiano e la sua arte si carica dapprima di sottile ironia, poi anche di sarcasmo e diventa infine esplicita critica dell’assolutismo governativo, del fideismo cieco, del sonno della ragione. Infine, con il peggiorare della situazione politica, in palese opposizione con la poetica del neoclassicismo importato a Madrid da Mengs, Goya affonda con le sue pitture nel mondo torbido dell’umano, dà spazio alla follia e al disordine, alla superstizione come ai fantasmi della mente, alle ossessioni che la opprimono. Qui non solo l’arte non ha più niente a che fare con il concetto di bello, ma sposta anche il suo campo dall’ufficialità della corte alla soggettività di un pittore che interroga per rapporto a se stesso e al mondo in cui vive.
Come una meteora nel buio della notte, nel giro di pochi decenni la sua arte ha compiuto un lungo ma anche sofferto tragitto: dall’ideale bellezza ancora riecheggiante nella mobilità luminosa del rococò alla nuova e moderna sensibilità romantica, visionaria e soggettiva, che fa i conti con il male di vivere, valorizza la libertà inventiva e la espressività, fino al punto da scardinare le regole della “buona pittura” e dando spessore anche al non finito. “Ci sono insomma artisti che vengono ricordati perché hanno realizzato opere d’arte belle e artisti che hanno cambiato il corso della storia dell’arte perché parlano della natura umana, quella più intima e mostruosa, senza filtri né mediazioni.” Goya è stato indubbiamente uno di questi, tra i massimi.
Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Francisco Goya, Autoritratto al cavalletto, 1785, olio su tela