La rassegna in corso al Museo di Ascona mette in dialogo le opere di una coppia di artisti, frutto di una vita comune e di un confronto coeso
La rassegna in corso al Museo di Ascona mette in dialogo le opere recenti della coppia di artisti Ruth (Svitto 1944) e Giancarlo Moro (Ginevra 1944), frutto di una vita comune e di un confronto artistico coeso. In effetti, pur lavorando con stili, tecniche e modalità diversi, le loro opere esprimono una forte assonanza che trova il suo punto originario in alcuni elementi di fondo, concettuali ed estetici, comuni a entrambi come il loro posizionamento nell’arte non figurativa e una radicata affinità con il pensiero orientale. Si tratta di elementi distintivi e costanti che, per strade dissimili, entrano tanto nella loro vita quanto nella loro arte, come testimonia la loro storia che nel corso dei decenni è andata sempre più avvicinandosi: non per quanto appare in superficie, ma per ciò che sta a monte, nello spirito che le anima. Proprio per questo Mara Folini l’ha voluta intitolare ‘Gioco di specchi’, dal momento che “pur nella loro diversità esecutiva, le opere dell’uno sembrano risuonare in quelle dell’altro”, ragion per cui non sono state esposte in spazi distinti, ma in continua correlazione, le une accanto alle altre.
Ora, chi ha avuto modo di seguire lo sviluppo della loro arte nel corso degli anni, o quantomeno nell’ultimo decennio, non potrà che rimanere sorpreso, già entrando nella prima sala, di fronte alle novità formali che caratterizzano la produzione dei loro ultimi cinque anni. In particolare la sensazione di trovarsi di fronte a un’arte di grande rigore, ancor più sorvegliata e pensata rispetto a quella che la precedeva, ma comunque conseguente a quella. Un passo che è un affondo verso ulteriori livelli di forma e di pensiero, frutto di una grande compostezza dell’opera qua e là appena intaccata da pause e silenzi, da leggeri spostamenti o eventi minimi, da presenze, assenze o dissolvenze che disarticolano o muovono il piano di lettura e inducono a fermare il passo, a osservare quanto succede, a sintonizzarsi con la dimensione contemplativa e meditativa, ma anche sottilmente esistenziale, che ne emana.
Che altro mai sono, infatti, quei vuoti, quelle leggere linee di assenza, quegli scarti che tramano certe opere di Ruth Moro, come appaiono Sul Nero 1 e 2? Ciò che colpisce nello sviluppo complessivo di questa sua ultima produzione è la dimensione più strutturata ma anche più pittorica che ha acquisito la sua arte, non solo per l’ampiezza dei formati o l’utilizzo del colore, ma più ancora per la novità e freschezza delle composizioni, per la mobilità delle forme, per la varietà delle soluzioni. Cosa di certo non facile per chi sostanzialmente opera avvalendosi di un unico elemento di base – una delicatissima struttura vegetale depurata delle parti molli e poi colorata, frutto di un paziente lavoro preparatorio – a partire dal quale crea poi le sue composizioni muovendo tra addensamenti (tanto da arrivare a saturazioni monocrome e sistematiche dell’intero formato) o alleggerimenti di spazi, forme e colore; tra il rigore della geometria o delle linee rette e la libertà di chi si muove Da punto a punto dando origine a una mobilità percettiva di aggregazioni curvilinee che varia con lo spostamento dell’osservatore. Tra stasi e mobilità, la memoria corre al celebre ‘Punto, linea, superficie’ di Kandinsky, ma anche a certi effetti ottici e compositivi connessi all’arte cinetica e programmata che si risente pure nelle ‘variazioni sul tema’ in opere giocate sull’alternanza di Punti e contrappunti. Ma c’è anche di più: cosa vuol dire costruire un sistema di complesse relazioni e mobilità interne a partire da una sorta di petalo, se non cercare il punto di incontro tra il naturale e l’umano, tra l’elemento cellulare di base e il progetto della mente, tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande? Inserendovi perfino, talvolta, il prodotto tecnologico rappresentato dai dot stickers che entrano a far parte dell’economia del quadro.
Mentre Ruth si muove prevalentemente sul piano della superficie, Giancarlo opera invece soprattutto su quello della profondità, delle emergenze. Messi da parte i sottili vibrati del colore dato a spatola, adesso la sua pittura si è ancor più decantata, direi quasi assolutizzata, fatta com’è di linee, superfici e strutture non di rado appena visibili, che sembrano filtrare da un fondo indistinto verso la luce, passando attraverso colori delicatissimi, quasi monocromi ma che in realtà svariano quel poco che basta per via di ripetute velature che attenuano fino quasi alla dissolvenza l’impianto strutturale e architettonico che in percepisce al fondo della pittura. Anche qui non mancano i richiami della memoria, della storia artistica lontana e vicina (da Mondrian e dall’arte minimalista agli Spazi-Luce di Calderara); di certo, considerata per rapporto alla sua storia artistica, mai come qui la pittura di Giacarlo Moro ha raggiunto esiti così alti di interiorizzazione, un incedere silente e meditativo dentro un ‘vuoto attivo’ che si propaga e lascia l’osservatore come sospeso su una soglia inafferrabile: che è il vero tema di questa sua pittura. Pur nella diversità che li contraddistingue, le opere ‘astratte’ di Ruth e Giancarlo Moro rivelano dunque un’affinità di fondo non solo nella comune scelta dell’astrazione, ma ancor più nell’intento concettuale che le anima, non esclusa la sensazione che vi si specchi pure un sottile sentimento del vivere.