Il fotografo, noto per le sue irriverenti campagne pubblicitarie, soffre di una malattia rara e incurabile
Non lo si riconosce, Oliviero Toscani, sulla prima pagina del ‘Corriere della Sera’ di ieri. Ma, leggendo la sua lunga intervista, se ne riconosce lo spirito.
Seppur provato dalla malattia, è chiaramente Oliviero Toscani, con la sua arguzia e la sua sfrontatezza, come quando si lamenta di non riuscire più a bere il vino perché i medicinali ne alterano il sapore. O quando racconta delle complicazioni di una polmonite virale e del Covid, presi lo scorso ottobre: «Penso di essere stato anche morto, per qualche minuto: ricordo una cosa astratta di colori un po’ psichedelici. Quando sto male e ho la febbre riesco a immaginare cose fantastiche».
Oliviero Toscani ha l’amiloidosi: è una malattia rara, o meglio un insieme di malattie, causata da depositi di proteine anomale, chiamate appunto amiloidi, nei tessuti e negli organi di tutto il corpo. Non c’è una cura per l’amiloidosi, per quanto Toscani si stia sottoponendo a una terapia sperimentale – «faccio da cavia» ha detto al ‘Corriere della Sera’ – che insieme ad altri trattamenti potrebbe garantirgli anche qualche anno di vita. Non si sa con quale qualità della vita, ed è un tema che Toscani, senza tabù e con una certa serenità, ha affrontato nella sua intervista, ricordando l’amicizia con Marco Cappato, il politico e attivista italiano che, con l’Associazione Luca Coscioni, si batte per l’introduzione dell’eutanasia, accompagnando personalmente alcune persone malate terminali in Svizzera per il suicidio assistito. «No, non ho paura [della morte]. Basta che non faccia male». E «certo che vivere così non mi interessa». Vediamo lo stesso spirito quando Elvira Serra gli chiede dell’aldilà – «non mi interessa» – e della speranza di incontrare nuovamente sua madre Dolores: «È una bella fantasia, ma io non ne ho abbastanza per coltivarla».
Toscani “ha rivoluzionato il mondo della fotografia, ha scandalizzato e fatto discutere” si legge nei vari articoli che suonano come premature orazioni funebri. In realtà, come aveva spiegato nel 2017 in un’intervista alla Regione, la fotografia per lui era solo «un mezzo, uno strumento per comunicare». Subito aggiungendo: «Sono un autore… bisogna iniziare a dirlo chiaramente: quando si parla di uno scrittore, non si pensa a qualcuno che “sa scrivere”, perché tutti sanno scrivere. Si intende un autore, uno che scrive cose che dovrebbero essere interessanti. Lo stesso dovrebbe valere per i fotografi, ma purtroppo non è ancora così: dici “fotografo” e si pensa semplicemente all’azione di fare fotografie! Ma tutti sanno fare fotografie!».
Le sue campagne pubblicitarie – realizzate da autore e non da pubblicitario visto che come ha ricordato sempre nel 2017 «non so neanche come funziona, la pubblicità, non ne seguo i canoni» – ha fatto la storia (e scatenato molte polemiche), dai jeans di ‘Chi mi ama mi segua’ al lungo sodalizio con la famiglia Benetton, dal bacio tra un prete e una suora ai volti dei condannati a morte al corpo di una donna consumata dall’anoressia. Ma per lui si trattava sempre di raccontare il mondo, come con altre modalità fece suo padre fotoreporter e qui occorre ricordare ‘Colors’, la rivista che anticipò l’impegno su tanti temi oggi attuali, dall’ambiente ai migranti, al razzismo.
Tanti lavori, tante celebrità incontrate – tra cui John Lennon, Andy Warhol, Muhammad Ali e Lou Reed –, ma nessuna voglia di restare ancorati al passato, nella ferma convinzione che ogni lavoro ha il suo tempo e bisogna sempre andare avanti. E, nonostante l’ambizione a essere ricordato non per una singola opera ma «per l’insieme, per l’impegno» durante l’intervista al ‘Corriere della Sera’ ha voluto ricordare un lavoro in particolare: quello realizzato per i sessant’anni dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. «Andai nell’unico bar e l’oste mi suggerì di parlare con il signore che stava entrando. Era Enrico Pieri: nell’eccidio aveva perso tutta la famiglia, era un bambino. Lì ho capito che si poteva fare qualcosa. È l’unico servizio che ho fatto tutto in bianco e nero, a spese mie. È la fotografia applicata nel modo giusto ed è l’unico documento di Sant’Anna».
Nato nel 1942 a Milano, Toscani studiò fotografia a Zurigo, alla Kunstgewerbeschule. Le “fotografie di scuola” di quel periodo erano state recuperate dagli archivi per la mostra che il m.a.x. museo di Chiasso gli dedicò nel 2017 (l’intervista venne realizzata in occasione di quell’esposizione, la prima antologica di Toscani). Oggi è il Museum für Gestaltung di Zurigo a ospitare, prolungata fino a gennaio, un’esposizione delle fotografie di Toscani. Che non è ancora andato a visitarla: magari ci andrà insieme a suo nipote Alì. «E poi magari proseguo il viaggio con Cappato. Farebbe molto ridere».