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Il Ventennio messo in mostra

Al Mart di Rovereto fino al primo settembre, ‘Arte e fascismo’, rapporto culturale e storico da indagare e riposizionare, senza alcuna assoluzione

Adolfo Wild, Dux, 1923
(Collezione privata)
12 luglio 2024
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Adesso che il vento tira da un’altra parte è finalmente giunto il momento per Vittorio Sgarbi, unitamente alle due curatrici Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, per affrontare di petto un’eredità scomoda e a lungo sommariamente trattata quando non rimossa, ma che proprio per questo costituisce ancora un problema aperto del nostro passato. In contrapposizione con titoli e tagli di precedenti rassegne, quello voluto qui da Sgarbi è perentorio e totalizzante «Arte e fascismo»: un ventennio messo in mostra con circa 400 opere, otto sezioni tematiche, e affrontato in un corposo catalogo che si apre con un suo polemico saggio dal titolo altrettanto perentorio: «Nell’arte non c’è fascismo. E nel fascismo non c’è arte». “Prima d’oggi – scrive – nessuno aveva osato. Nonostante l’evidenza, cronologica e iconografica. E così siamo arrivati fino a oggi, rimuovendo, girando la testa, censurando”, lasciando insomma cadere in un cono d’ombra, per via di un pregiudizio ideologico, anche tanta buona arte durante il Fascismo. Un piglio che si ritrova a conclusione della mostra, in quell’intenso ritratto bronzeo del duce, opera del 1923 di Adolfo Wildt, barbaramente perforato dai colpi di piccone inferti dai partigiani a un capolavoro artistico – deprecabile anticipo della damnatio memoriae che sarebbe seguita – messo a contrasto con la celebre Enciclopedia Treccani, nobilissima pubblicazione in 35 volumi uscita a Roma negli anni del Fascio, tra il 1929 e il 1937.

In realtà, quando si entra poi nel vivo dei saggi in catalogo, i toni polemici si abbassano di molto per lasciare spazio a una più decantata analisi storico-critica e, allora, certi luoghi comuni sull’oscurantismo retrogrado dell’arte durante il ventennio fascista se non si dissolvono, certo si attenuano quando li si mette a confronto non tanto o solo con le dichiarazioni pubbliche di Mussolini, ma con tutta la sua complessità e varietà della produzione artistica quantomeno fino al 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, del progressivo appiattimento sul nazismo di Hitler, nonché della nascita del Premio Cremona ideato e voluto dal federale Roberto Farinacci nell’intento propagandistico di promuoverne un’immagine diretta, collettiva e popolare. Vi si contrapposero il Premio Bergamo e il Gruppo di Corrente. A dimostrazione che il Fascismo fu sì (e cito da p.31) “un’epoca buia dal punto di vista politico, retta da un regime che ha ingannato, dissimulato, soppresso la libertà: di voto, di pensiero, di stampa, ma che – è ormai riconosciuto – rispetto alla funzione dell’arte e al ruolo degli artisti è stato, almeno fino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938, meno censorio di altri totalitarismi come quello stalinista, nazista, o franchista”. Basti il rinvio al Realismo sovietico o all’Arte degenerata nella Germania del ‘37.


Museo d’arte moderna e contemporanea Filippo de Pisis, Ferrara
Mario Sironi, La Giustizia, 1936-1937

Mussolini, all’inaugurazione della mostra di Novecento alla Galleria Pesaro di Milano, il 26 marzo 1923, sosteneva invece che “non si può fare una grande nazione con un piccolo popolo. Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti; l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell’umanità e seguirà l’umanità fino agli ultimi giorni. (…) Lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale”. Più probante era però la varietà degli orientamenti stilistici compresenti sul territorio: da quello avanguardistico legato alle sperimentazioni del Futurismo, alle declinazioni di ascendenza metafisica o surreale cui si sarebbero poi aggiunte quelle astrattiste del Gruppo di Como o le innovazioni dell’architettura razionalista; a quello del “ritorno all’ordine” e al recupero della tradizione, che non era solo fenomeno italiano ma europeo, a cominciare da Picasso, Matisse, Derain, per fare dei nomi, ma che si ritrova pure in Carrà, Sironi, Severini, nel ‘Realismo magico’ di Bontempelli o, fondamentale, in ‘Novecento italiano’, creato da Margherita Sarfatti. Certo, il ritorno all’antico, italico e romano, era funzionale allo stesso Fascismo che vi aveva attinto copiosamente ma di fatto, in entrambi gli orientamenti, operarono uomini di ben differenziata caratura artistica e ideologica, come si può vedere nel ristabilito contatto con la lezione dei grandi maestri, da Giotto a Piero e ancor più su, quando dalle opere di Carrà, Funi, Sironi e Casorati, dello stesso Morandi, si discende poi a temi e forme più diretti e illustrativi (La raccolta del grano), ma anche propagandistici, volti cioè al conseguimento del consenso popolare grazie anche a un ben organizzato ‘sistema delle arti’.

È dunque all’interno di questo ampio e movimentato spettro di orientamenti artistici – cui si accompagnano talvolta importanti aperture sul contemporaneo europeo, come la mostra di Kandinsky nel 1934 alla Galleria del Milione di Milano – che va criticamente indagato e riposizionato il rapporto culturale e storico tra arte e fascismo. Luigi Bartolini non esitò ad affermare che “l’arte italiana era ferma, prima del fascismo, ad Aristide Sartorio e ad altri brillanti, superficiali cartolinai. Fu durante il fascismo che fiorirono i Carrà, i Soffici, i de Pisis, Scipione e il suo derivato Mafai, de Chirico (…) e molti altri valorosi artisti”. È un dato di fatto, ma non grazie al Fascismo; e comunque non basta questo ad assolverlo dalle sue gravi responsabilità storiche.


Collezione privata, courtesy Studio d’Arte Nicoletta Colombo
Carlo Carrà, Atleti in riposo (Pugilatori), 1933-1935, poi ripreso dall’artista nel 1936

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