Una malattia si è portata via a 77 anni uno dei più grandi romanzieri contemporanei, capace come pochi di raccontare l’incompiutezza dell’America
Paul Auster era nato a Newark, nel New Jersey, proprio come il suo collega Philip Roth. E, allo stesso modo del suo correligionario, alla fine ha salutato questo mondo senza ricevere quel Nobel per la letteratura che entrambi avrebbero tanto meritato. Nella stessa città, geograficamente molto vicina a New York ma per certi altri versi lontanissima dalla Grande Mela, sono venuti al mondo un sacco di personaggi assai interessanti, ed è piuttosto probabile che proprio la provenienza da quel luogo particolare sia stata determinante per la loro affermazione nei più svariati campi.
Città che deve la sua fortuna prima al cuoio e poi alla ghisa – oltre che alle attività portuali – Newark per tutta la prima metà del Novecento rappresentò un forte richiamo per gli immigrati che, dall’Europa o dal resto degli Usa, vi si riversavano per far fortuna e vi impiantavano quartieri rigidamente divisi a livello razziale, religioso e di nazionalità.
Presentava dunque, in miniatura, uno spaccato delle varie comunità del mondo, ognuna con le sue usanze e con i propri giornali, le proprie feste e le proprie tradizioni. È dunque in questo non troppo grande crogiolo di culture in fermento – 300mila abitanti scarsi – che videro la luce il poeta Allen Ginsberg, il pugile Marvin Hagler, i cantanti Paul Simon, Gloria Gaynor, Sarah Vaughan, Whitney Houston e Frankie Valli, il cestista Shaquille O’Neal, gli attori Jerry Lewis, Ray Liotta, Joe Pesci e Queen Latifah, un musicista come Wayne Shorter, alcuni rapper di grido, un regista come Brian De Palma e, come detto, romanzieri del calibro di Philip Roth e Paul Auster, scomparso purtroppo lo scorso 30 aprile.
Pur essendo un’ottima palestra di vita, per lo sport e per le arti, Newark – che rimaneva comunque nient’altro che provincia – a un certo punto finiva però per andare stretta a tutti quanti, che prima o poi decidevano di andarsene via, chi verso il naturale sbocco di New York e chi invece verso lidi assai più lontani, soprattutto Los Angeles con i suoi studios e le sue etichette musicali.
A indurre molti a salpare, inoltre, ci furono le rivolte razziali del 1967, che coi loro 26 morti e i danni materiali incalcolabili lasciarono un profondo segno specie negli adolescenti dell’epoca, e che convinsero la borghesia ad abbandonare il centro città – ormai non più sicuro come un tempo – per spostarsi nei sobborghi residenziali, molto più tranquilli.
Fra chi abbandonò la città proprio in quegli anni ci fu appunto Paul Auster – discendente di ebrei polacchi e austriaci non ricchissimi ma certo benestanti – che attraversò il fiume Hudson e, raggiunta la metropoli, si iscrisse alla Columbia University, dove si laureò in lettere dato che già da ragazzino, dopo aver trovato un baule pieno di libri appartenuto a un vecchio parente, si era invaghito della narrativa e della poesia, tanto da comporre i suoi primi versi quando era soltanto dodicenne.
Non volendo pesare sulla famiglia, si imbarcò per molti mesi su una petroliera e, coi soldi raggranellati, partì poi per Parigi, dove aveva già trascorso un intero anno universitario e dove intendeva iniziare una vita da vero scrittore, senza immaginare che, date le ristrettezze economiche, più che produrre in proprio gli sarebbe toccato per sopravvivere tradurre in inglese i capolavori della letteratura francese (Mallarmé, Sartre e Simenon, fra gli atri), esperienza che, a ogni modo, non rinnegherà mai e che anzi gli fu straordinariamente utile negli anni a venire.
A metà degli anni Settanta tornò in America e iniziò a pubblicare le prime cose, specie racconti, poesie e testi teatrali, composizioni che rappresentano un po’ il preludio al suo primo romanzo, ‘L’invenzione della solitudine’ (del 1982), opera in gran parte autobiografica di cui si accorgono soprattutto i critici, mentre a farlo conoscere su larga scala, cinque anni più tardi – quando è ormai quarantenne – sarà la ‘Trilogia di New York’, che comprende i tre romanzi che aveva scritto negli ultimi tre anni, vale a dire ‘Città di vetro’, ‘Fantasmi’ e ‘La stanza chiusa’, testi postmodernisti che raccontano di un mondo in pratica dominato dal caso e dalle coincidenze, dalla difficoltà nel comunicare e dall’inesorabile solitudine dell’essere umano benché si ritrovi a vivere in mezzo a moltitudini di persone.
Tutti elementi che non abbandonerà mai e che ritorneranno anche nelle sue opere successive, capaci di stupire e affascinare sia per le trame – in cui spesso e volentieri appare il personaggio dello scrittore ossessivo e in parte ossessionato, alle prese con ciò che succede a sé stesso ma anche al suo Paese, alla perenne ricerca di un’identità – sia per la grande ricerca a livello di linguaggio.
Esemplare è come in diverse occasioni Auster abbia utilizzato il gioco del baseball per provare a spiegare un po’ di storia statunitense. Privo di una vera e antica epica come la concepiamo in Europa, il Paese ha trovato un succedaneo nello sport, che è poi diventato a sua volta l’epica moderna in ogni angolo del mondo.
E il baseball, in quanto gioco davvero popolare, interclassista e intergenerazionale, nelle sue opere diventa l’unico terreno di scambio possibile fra gli individui, soprattutto quando si tratta di rapporti fra padre e figlio, che Auster ha lungamente sondato e trattato. E, come nel caso del suo amico e collega Don De Lillo, nei suoi libri mazza, palla e guantone sono anche il filo che lega insieme i vari momenti del Novecento americano, ancor più delle guerre, tema caro a molti altri romanzieri ma che in lui non ha mai trovato grande spazio.
Auster non si è però limitato alla narrativa nel senso più classico: invece di sedersi sugli allori una volta ottenuto il successo (anche commerciale) e battere unicamente piste già conosciute e prive di insidie, a un certo punto ha voluto mettersi alla prova anche nel cinema, peraltro con ottimi risultati. Sue sono infatti un paio di strepitose sceneggiature vergate verso la metà degli anni Novanta e finite sul grande schermo con la regia di Wayne Wang.
Parliamo di ‘Smoke’ e ‘Blue in the face’, capolavori costruiti su storie minime ma potenti all’inverosimile, ambientate nel chiuso di una tabaccheria newyorchese, fra l’altro magistralmente interpretati da attori come Harvey Keitel, William Hurt, Forest Whitaker, e conditi da chicche musicali firmate dal divino Tom Waits, un altro impareggiabile cantore e indagatore del secondo Novecento americano e delle sue contraddizioni. E a portare la firma di Paul Auster fu anche ‘Lulu on the bridge’ – autentica perla pure questa – pellicola fitta di musica jazz e scene oniriche in cui, di nuovo, viene messa in evidenza la difficoltà nel comunicare e nel tenere in piedi quel minimo di felicità che ci è dato raggiungere.
Cresciuto e migliorato col passare degli anni e dei suoi libri, Paul Auster ha toccato l’apice nel 2017 con ‘4 3 2 1’, suo autentico capolavoro e pietra miliare della letteratura americana contemporanea, un geniale romanzo in cui il protagonista illustra quattro possibili diversi sviluppi che la sua vita avrebbe potuto prendere, se solo un piccolissimo dettaglio fosse stato – di volta in volta – leggermente diverso.
Avesse scritto anche solo questo libro, avrebbe come detto con ogni probabilità meritato il Nobel, se soltanto l’Accademia avesse meno paura di premiare gli autori di bestseller e se fosse meno schiava della ricerca a ogni costo del romanziere di nicchia, letto da pochi iniziati – ovviamente in lingua originale (spesso un idioma mai nemmeno sentito nominare) – e possibilmente rappresentante di minoranze che nemmeno sanno di esserlo.