Torniamo a parlare ‘Fra arte e grafica’, fino al 28 aprile allo Spazio Officina di Chiasso, per ripercorrere 60 anni di vita e arte dal Cantiere all’Esodo
Due dipinti mi hanno particolarmente colpito visitando la bella rassegna allestita da Gianni Realini nello Spazio Officina di Chiasso: due opere che sono poi anche la prima e l’ultima in ordine cronologico tra quelle esposte. Quest’ultima non potete non vederla una volta entrati, là in fondo, in capo alla grande sala, a occupare un’intera parete: da restare ammirati e stupiti tanta è l’energia che quel dipinto sprigiona e il ritmo che lo attraversa. La vedete da trenta metri di distanza, ma la leggete già tutta nella dinamica gestuale dei suoi segni, nell’alternanza cromatica delle sue forme, nelle simmetrie come nelle divergenze della sua composizione a specchio. Si intitola Esodo, del 2023, ed è un polittico composto da tre grandi tele in successione: l’unità nella molteplicità. L’altro quadro lo dovete invece cercare dietro una paratia sulla vostra sinistra: si intitola Cantiere ed è del 1964.
Tra i due scorrono sessant’anni di vita e di arte: un abisso, verrebbe da dire, di cui la mostra non può dar conto se non per brevi accenni e grandi sorvoli. Per quanto unico, quel cantiere getta però illuminanti bagliori su un periodo – quello degli esordi di Realini – a me finora sconosciuto: perché, tanto nei suoi toni bassi e terrosi, quanto nei contenuti allusi, quel dipinto è ancora tutto lombardo, o quasi; rientra cioè nella lunga catena di gasometri e fabbriche, di periferie urbane semiabbandonate che, quantomeno da Mario Sironi in su, si prolungano fin dentro gli anni Sessanta e arrivano a lui attraverso l’insegnamento alla CSIA di Bruno Morenzoni, Carlo Cotti, Pietro Salati, Vinicio Beretta, per citarne solo alcuni. Ma quell’attacco è importante per capire l’intento che animava le sue prime pitture: quell’incunabolo è infatti testimonianza di un’attenzione, pre-sessantottesca, nei confronti degli sventramenti urbani e della speculazione edilizia che, proprio in quel giro d’anni, scempiavano pesantemente il tessuto sociale delle nostre città e regioni. Quelle pennellate grige e oscure che a tacche, dai tratti marcati (la memoria va a certo De Staël), occupano e invadono la superficie del dipinto sono il segno di un malessere che avanza, di un grigiore che sta calando sul territorio.
Collezione d’arte m.a.x museo, Chiasso
Gianni Realini, Esodo - 2023. Acrilico su tela, 200 x 720 cm
Pochi passa più in là e solo quattro anni più tardi, sull’altra parete, nella Parigi del ’68, con Piazza Concorde e Quartiere latino, siamo sempre in ambito architettonico e urbano, ma colori e forme non sono più quelli: segno che qualcosa è avvenuto e l’orizzonte di riferimento è mutato. Si sta infatti per avviare uno snodo che, soprattutto dopo il 1985-1986, porterà molto lontano. La rassegna chiassese ne dà conto operando su un duplice livello. Da una parte evidenziando l’integrazione e il dialogo tra le varie tecniche con cui egli si esprime e come evolvano nel tempo: dall’opera grafica alle guache, dalle grandi pitture su tela all’arte ambientale che entra tridimensionalmente nello spazio e lo dinamizza. Dall’altra dando conto, per rapidissimi cenni, del percorso pittorico di Realini che, a partire dal ’68 trascorso a Parigi, vira decisamente verso nuove forme espressive dai complessi richiami interni, le quali, salendo nel tempo, spostano a ondate, ma in maniera inequivocabile, i riferimenti stilistici e tematici della pittura fino alla messa a fuoco del suo linguaggio più peculiare: quello delle grandi tele dominate dall’irruenza del gesto e dalla pienezza del colore, per lo più timbrico e giocato allo stato puro con i tre primari, perfino fatto colare a rivoli. C’è molta energia, freschezza e coinvolgimento diretto in tutto questo, anche non poca imprevedibilità: non però caos.
Ma cosa è rimasto dello spirito critico di quel primo cantiere nelle opere successive? È domanda che può anche affacciarsi in chi si muove tra quelle sue grandi tele. Apparentemente nulla. In realtà tutto si è lentamente trasformato nel tempo (da Approdo del 2012, a Lanterna Magica del 2023) facendosi meno diretto e appariscente, ma non per questo meno reale ed esistenziale. La tela è diventata infatti il luogo dello scambio, del transfert: passando attraverso paesaggi allusi e parvenze antropomorfe il pittore è progressivamente andato oltre la figurazione, ma per conferire alla sua pittura caratteristiche e valenze proprie della vita stessa. L’artista mette cioè in campo un sistema di forze, di pesi e contrappesi, di linee e colori contrastanti che si contendono lo spazio (della pittura come della vita), vivono di reciproci conflitti e tensioni. La corporalità, sia della pittura come del gesto, si condensano poi in fragili presenze che appaiono tra flussi, moti, dilatazioni e contrazioni, tra un saettare di colpi, di luci e di ombre, occlusioni e spiragli: ben noti a chi vive alla ricerca di un punto d’appoggio in una condizione di continuo, inarrestabile movimento, talvolta.perfino franante. Quella pittura ne è lo specchio più fedele.
Vi si sente dentro l’aspirazione a tradurre sulla tela l’idea di uno spazio di vita possibile, che metta un freno al caos e si assesti in una auspicata per quanto precaria condizione dell’esistere: fosse anche sull’orlo di un baratro che i nostri cupi tempi hanno certo contribuito a incrementare. Camminando tra i quadri, siamo così giunti alla grande tela con cui chiude il percorso: nelle figure (qui sì antropomorfe) di questo Esodo c’è l’eco dei drammi odierni, la disperazione di uomini, donne, popoli interi in fuga dalla loro terra, alla ricerca di una dignità di vita a loro negata, condannati forse a sparire inghiottiti nel vuoto che già li assorbe sui due lati.
Collezione privata
Gianni Realini, Cantiere, 1964, Olio su tela, 140 x 100 cm